Latina

La polizia attacca con violenza la marcia indigena in difesa del Parque Nacional Isiboro Sécure

Bolivia: lo scempio

Mobilitazioni in tutto il paese contro Evo Morales e il Mas
27 settembre 2011
David Lifodi

In Bolivia sembra essere tornato il tempo delle grandi manifestazioni sociali contro i governi neoliberisti. Stavolta, però, nel mirino della protesta si trovano il presidente indigeno Evo Morales ed il suo vice Álvaro García Linera (già ideologo del katarismo radicale boliviano) dopo la violenta repressione scatenata dal governo nei confronti degli indigeni in marcia dallo scorso 15 Agosto per protestare contro l'autostrada che dovrebbe sorgere nel territorio indigeno del Parque Nacional Isiboro Sécure, familiarmente conosciuto come Tipnis.

Creato nel 1965 ed esteso tra i dipartimenti di Beni e Cochabamba, il Tipnis rischia di essere sventrato dalla costruzione di un'autostrada che dovrebbe collegare Villa Tunari a San Ignacio de Moxos: 60 chilometri che le comunità indigene della zona (mojeño, yurakaré e chimán) non hanno mai ritenuto essere un progetto di progresso, poiché le loro quotidiane attività di sussistenza rischierebbero di essere stravolte: caccia, pesca, agricoltura familiare sarebbero facilmente sostituite dalla monocoltura di soia ed eucalipto, con la possibilità assai concreta, per le comunità, di doversi trasferire altrove. Sebbene Morales abbia più volte giustificato la necessità di costruire l'autostrada (che attraverserebbe un territorio noto per la sua ricca biodiversità) a causa degli accordi dei precedenti governi neoliberisti, vedi la legge che imponeva la fattibilità della grande opera risalente addirittura all'epoca di Jaime Paz Zamora nel 1990, Palacio Quemado e buona parte dei suoi ministri hanno tentato in più circostanze di screditare la marcia indigena. Tra offerte di negoziazione, tavoli di confronto e provocazioni, Morales non ha fatto una gran bella figura: gli indigeni e, più in generale, tutti gli oppositori all'autostrada, sono stati definiti, nel migliore dei casi, mercenari manovrati dall'agenzia internazionale statunitense Usaid, servi dell'opposizione di destra, e via con insulti di questo tipo. Era inevitabile che alla fine la "Marcha por la Defensa del Territorio, la Dignidad y la Vida" finisse per essere repressa selvaggiamente. Domenica scorsa, a poco più di trecento chilometri dalla capitale La Paz, nella località di San Miguel de Chaparina (provincia Ballivián, dipartimento del Beni), la polizia ha scatenato l'inferno: si parla di un bambino indigeno di pochi mesi morto asfissiato dai gas lacrimogeni, 37 manifestanti risultano ancora desaparecidos e ci sono centinaia di feriti e arrestati, alcuni dei quali sottratti alle forze militari grazie all'intervento della popolazione in rivolta. Probabilmente il processo di cambio più volte sbandierato da Morales si è interrotto definitivamente con la vicenda del Tipnis, al pari dell' alleanza, già da tempo assai fragile, tra i movimenti sociali ed il Movimento al Socialismo di Evo. Più volte era stata sollevata l'incostituzionalità dell'autostrada all'interno del Parque Nacional Isiboro Sécure: gli articoli 30 e 352 di una Costituzione che, sulla carta, resta una della più avanzate del continente latinoamericano, stabiliscono infatti che i popoli indigeni hanno il diritto ad essere consultati prima della realizzazione di opere che vadano a danneggiare la vita delle comunità. L'indio Evo ha deciso di sospendere la costruzione dell'autostrada per scegliere il percorso di una consultazione popolare solo in seguito ai gravi fatti di domenica scorsa, ma fino a quel momento se ne era guardato bene. Le notizie che arrivano in questi giorni dalla Bolivia non sono delle migliori. "Questo è un falso governo indigeno ed Evo è un traditore" sono le parole pronunciate da buona parte dei dirigenti dei movimenti sociali. La Central Obrera Boliviana (Cob) ha chiesto le dimissioni immediate di Morales e García Linera, ancora più pesanti le considerazioni della dirigente guaranì Justa Cabrera: "Evo è divenuto uno strumento nelle mani di multinazionali quali Petrobras, Repsol, Total e Petroandina". Che al Palacio Quemado di La Paz regni il caos lo si capisce dal triste scaricabarile delle responsabilità su chi ha lasciato mano libera alla polizia. Morales ha garantito che i militari responsabili delle violenze saranno immediatamente scovati e puniti ed ha dichiarato più volte che la strada percorsa dal governo è sempre stata quella del dialogo: "L'intervento nei confronti dei manifestanti, così come gli abusi compiuti nei confronti dei fratelli indigeni, sono stati errori imperdonabili". Resta però il fatto che il governo era intenzionato a bloccare la marcia, indipendentemente dal fatto che la situazione possa essere sfuggita di mano. Inoltre, il viceministro dell'Interno Marcos Farfán, pur dimettendosi, ha smentito il comunicato diramato dal titolare del ministero, Sacha Llorenti, che aveva attribuito a lui l'ordine della repressione. Non solo: Farfán ha scritto a sua volta una lettera per smentire quanto dichiarato dallo stesso Llorenti. Stesso copione anche per le dimissioni della ministra della Difesa Cecilia Chacón, che ha abbandonato il dicastero proprio in polemica con Morales, in quanto in disaccordo con la scelta di attaccare con violenza la marcia. In un susseguirsi di contraddizioni più o meno penose restano le scene di oltre 270 marciatori deportati a forza sulle camionette della polizia, manifestanti ammanettati e addirittura medici picchiati per la "colpa" di voler soccorrere i feriti. In tutto il paese le università sono mobilitate, mentre sono in molti a ripetere che una repressione di questo tipo contro una marcia indigena pacifica non era mai avvenuta nemmeno sotto i governi neoliberali, paragonabile solo all'uso della forza nei confronti della popolazione che attuò "Goni" Sanchez de Losada.

Può darsi che Morales resti in sella, ma purtroppo i fatti di domenica scorsa non sono un brutto sogno: un governo indigeno (? il pnto interrogativo a questo punto è d'obbligo) ha attaccato violentemente una marcia di comunità indigene che reclamavano diritti, rispetto e dignità. Indipendentemente dall'accertamento delle responsabilità, il rapporto di fiducia tra movimenti sociali e, più in generale, tra la società civile di un paese a forte maggioranza india, ed il suo governo, si è interrotto: ricostruirlo sarà molto difficile. 

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it.
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