Latina

Regolarizzati dopo tre mesi di sofferenza

L’odissea dei migranti haitiani in Brasile

Resta discutibile la politica migratoria brasiliana
30 aprile 2012
David Lifodi

Dopo tre mesi di attesa il Brasile ha accolto definitivamente i rifugiati haitiani giunti dopo un lungo peregrinare nel paese verdeoro, accampati a Tabatinga (stato di Amazonas) e da tempo in una sorta di limbo giuridico. Luce verde anche per l’altro gruppo di migranti haitiani bloccati nella città peruviana di Iñapari, al confine con lo stato brasiliano dell’Acre e con la Bolivia.

La conclusione positiva della vicenda impone comunque una riflessione sulla politica migratoria del Brasile. In piena espansione economica, il gigante dell’America Latina ha finora scelto di accogliere sul suo territorio cittadini stranieri altamente qualificati, desiderosi di lavorare in un paese ormai avviato a diventare il leader del blocco Brics. Al tempo stesso urgeva un cambiamento della vecchia legge migratoria (Estatuto dos Estrangeiros), varata nel 1980 all’epoca del regime militare. L’elaborazione di una nuova normativa che regolasse il flusso migratorio verso il Brasile, in continua crescita, si è indirizzata verso la strada del costo-beneficio: porte aperte agli immigrati altamente qualificati, limiti per gli stranieri che fuggono dalla povertà dei paesi di origine. Lo stesso economista Ricardo Paes de Barros, incaricato dal Planalto di rivedere l’ormai inadatto Estatuto dos Estrangeiros, ha ammesso: “La solidarietà deve avere un limite, pur contribuendo ad accogliere le persone che provengono da situazioni insostenibili al loro paese”. Di fatto si tratta di una politica migratoria altamente selettiva, e qui entra in gioco la storia dei migranti haitiani. Lo scorso 12 Gennaio, quando i due gruppi di rifugiati haitiani già erano giunti a Tabatinga e vivevano in una situazione insostenibile ad Iñapari, il governo brasiliano aveva stabilito di concedere cento visti d’ingresso al mese tramite la sua ambasciata a Port-au-Prince: per il resto porta sbattuta in faccia agli haitiani senza permesso di soggiorno, fatto che ha costretto questo gruppo di rifugiati a vivere in una sorta di terra di nessuno. Per loro, esclusi dalla possibilità di accedere ad un visto d’ingresso per motivi umanitari, senza alcuna occasione di trovare lavoro e dipendenti dal solo aiuto di alcune organizzazioni non governative (tra cui Conectas Direitos Humanos) e dalla disponibilità della popolazione locale, si è aperto l’incubo dello sfruttamento da parte dei narcotrafficanti e di imprenditori  senza scrupoli pronti ad arruolarli, nella più completa illegalità contrattuale, in manodopera a basso costo per lavorare alla costruzione di dighe o miniere: in una parola schiavi. La vita dei migranti haitiani, giunti in Brasile dopo viaggi avventurosi e drammatici attraverso la rotta Repubblica Dominicana, Ecuador, Perù, oppure passando per Cile e Bolivia, è cambiata quando, lo scorso 5 Aprile, il Ministero della Giustizia brasiliano ha messo in pratica quanto deciso da Dilma Rousseff: ingresso in Brasile per i 245 migranti bloccati ad Iñapari e revoca dell’espulsione per i 363 già a Tabatinga dal 13 Gennaio 2012. All’inizio di aprile, in una lettera-manifesto indirizzata alla presidenta Rousseff, i rifugiati di Tabatinga chiesero dignitosamente di non essere dimenticati: ci tenevano a vivere del proprio lavoro e non intendevano essere un peso per il Brasile. Fino ad allora erano disoccupati, senza soldi, vivevano di elemosina, non potevano permettersi un affitto e tantomeno pasti regolari: per loro, adesso, comincia una nuova vita. Dal 14 al 23 Aprile, a gruppi di cento persone, gli haitiani sono stati trasferiti da Tabatinga a Manaus, la capitale dello stato di Amazonas: lì hanno ricevuto il protocollo del rifugiato dalla polizia federale, un documento che autorizza l’ingresso legale in Brasile contenente inoltre un libretto di lavoro. A Manaus sono stati accolti dalla Pastorale dei Migranti dell’arcidiocesi della capitale, che ha offerto loro le prime informazioni utili su come condurre a termine il processo di regolarizzazione migratoria in Brasile ed ha svolto un servizio di orientamento per indirizzare i rifugiati alla ricerca di un lavoro e di un alloggio. Un percorso simile è stato seguito per i migranti di Iñapari: il 10 Aprile hanno ricevuto il permesso di attraversare la frontiera e sono stati condotti a Brasileia, città nel nord dell’Acre, dove  un primo gruppo di donne ed un neonato di sei mesi hanno ricevuto cure e attenzioni. Come i loro connazionali a Tabatinga, anche gli haitiani di Iñapari hanno dormito per mesi nelle strade e nelle piazze della città peruviana dipendendo in tutto e per tutto dalla solidarietà degli abitanti del luogo e dagli aiuti di Conectas Direitos Humanos: per loro adesso si prospetta la possibilità di essere assunti da alcune imprese degli stati di San Paolo, Paraná, Santa Catarina, Rio Grande do Sul nel settore edile e dell’industria, adesso che sono dotati della carteira de trabalho, il permesso di lavoro. Dal devastante terremoto del 12 Gennaio 2010 che distrusse l’isola molti haitiani hanno scelto di dirigersi verso Ecuador, Cile, Venezuela, Guyana Francese e Brasile. Buona parte di questi paesi ha chiuso le frontiere (la Bolivia e, fino a pochi giorni fa, lo stesso Brasile) ed altri hanno aumentato i requisiti necessari per il visto d’ingresso (il Perù), costringendo i migranti a percorrere un doloroso cammino di ritorno verso Haiti. Il flusso dall’isola ai paesi latinoamericani è aumentato in corrispondenza con la presenza sempre più massiccia di trafficanti di uomini senza scrupoli che, al pari dei polleros messicani, hanno costretto i migranti haitiani a sborsare cifre da capogiro (tra i tremila e i cinquemila dollari) promettendo improbabili trasferimenti in Europa e negli Stati Uniti insieme ad un lavoro sicuro.

Per un caso che alla fine ha dei risvolti positivi, quello dei migranti haitiani che sono riusciti ad inserirsi in Brasile, resta comunque discutibile la politica migratoria verso cui sembra sempre più indirizzato il Planalto: negare ospitalità e aiuti umanitari per tre mesi non rappresenta certo un bell’esempio di accoglienza.

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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