Guatemala: verità e giustizia per Totonicapán
In Guatemala lo stato di diritto non esiste: un’oligarchia composta da famiglie interessate unicamente all’agrobusiness, oltre che a servire le multinazionali di turno, amministra il paese come se fosse un’immensa finca su cui esercitare il diritto di proprietà e lo Stato si manifesta solo in funzione repressiva. E’ da questo mix di autoritarismo e fascismo sociale che hanno avuto origine i drammatici fatti del 4 ottobre scorso, quando i militari hanno sparato ad altezza uomo contro centinaia di contadini maya che avevano occupato un tratto della Carretera Interamericana nel dipartimento di Totonicapán per protestare contro l’aumento della tariffa del servizio di energia elettrica ed un pacchetto di misure imposte dal presidente Otto Perez Molina apertamente incostituzionali, tra cui la demolizione dell’istruzione pubblica e la conseguente privatizzazione dell’insegnamento.
Durante la riunione che si stava svolgendo a Città del Guatemala tra lo stesso presidente e le autorità indigene, le forze di (in)sicurezza dello Stato hanno sparato sui manifestanti, causando otto morti e quaranta feriti: si tratta della prima strage compiuta dai militari in seguito alla firma degli accordi di pace del 28 Dicembre 1996 tra esercito e guerriglia. L’unico aspetto positivo di questa vicenda è che, per la prima volta dalla ratifica degli accordi di pace, nove militari dovrebbero essere processati per la mattanza di Totonicapán. Ad affermarlo il Ministerio Público guatemalteco, che ha informato la stampa sulla carcerazione stabilita per il colonnello dell’esercito Juan Chiroy Sal e la sua squadra. Si tratta di una novità assoluta per un paese dove l’impunità ha sempre regnato sovrana ed in cui, attualmente, è presidente un ex militare come Molina (che ricoprì un ruolo attivo nella controinsurgencia durante il conflitto armato) ed i ministeri principali sono tutti nelle mani di militari in pensione. Di più: è un bello smacco per lo stesso Molina, che, senza vergogna, ha cercato in tutti i modi di difendere i responsabili della strage dicendo che gli scontri erano stati provocati dai contadini. Detto questo, c’è ben poco da gioire. Un comunicato del Cifca (Copenhagen Initiative for Central America), di cui fa parte anche la ong italiana Mani Tese, chiede un’ indagine immediata, indipendente e imparziale, che faccia luce sui fatti di Totonicapán. In particolare, l’appello intende far rispettare al Guatemala il legittimo diritto dei suoi cittadini a manifestare e a difendere i diritti umani in un paese dove sono sistematicamente calpestati. Più volte, in questi giorni, il ministero della Difesa ha cambiato la sua versione dei fatti. L’ultima, facilmente smentibile, sostiene che i militari hanno sparato in aria per disperdere i manifestanti: peccato che molti di loro mostrino ferite di armi da fuoco alle braccia e alle gambe. Purtroppo tutta la storia di questo martoriato paese è segnata dagli abusi e dalla spoliazione dell’autorità pubblica ai danni della popolazione, in aggiunta ad una discriminazione di carattere etnico e razziale: il decreto 40-2000, approvato per favorire la progressiva demilitarizzazione delle forze di sicurezza nel segno dell’Acuerdo de Fortalecimiento del Poder Civil y Función del Ejército en una Sociedad Democrática, è stato più volte disatteso. Totonicapán è uno dei dipartimenti dove maggiore è la percentuale di indigeni maya, così come è assai numerosa la fascia di popolazione che vive in estrema povertà. La stessa Costituzione riconosce il diritto a manifestare, così come il Guatemala ha approvato una dichiarazione Onu in cui sono sanciti i diritti dei popoli indigeni, ma è tutto carta straccia. Lo Stato impone l’ordine con le armi ed incute timore tramite un soffocante controllo sociale: in questo senso poco è cambiato dai tempi dei brutali regimi militari degli anni ’80 impersonificati da Lucas García e Rios Montt. Oggi, come allora, i militari sono presenti in forza nei villaggi indigeni: negli ultimi anni si è cercato di mascherare questa forma di controllo sociale con la scusa che è la supposta lotta al narcotraffico a giustificare la presenza dell’esercito. In realtà, i militari spesso sono inviati fino alle più remote comunità maya per stroncare qualsiasi forma di ribellione contro la costruzione delle centrali idroelettriche e l’estrazione mineraria a cielo aperto. L’ennesimo aumento delle tariffe per compiacere la multinazionale dell’energia Energuate (a capitale inglese), si somma alle nefandezze della spagnola Unión Fenosa che, tramite le sue partecipate locali, tra cui Deocsa, da anni ha messo in atto un durissimo braccio di ferro con le comunità indigene, spesso lasciate senza luce negli anni scorsi durante le feste natalizie. Nel 2009 era stata tagliata la luce alle comunità del dipartimento di San Marcos poiché numerose famiglie si erano dichiarate in resistenza ed avevano rifiutato di pagare la bolletta, lo stesso era accaduto nel 2010. In Guatemala una fattura elettrica erode circa il 35% del già poverissimo bilancio familiare di buona parte degli abitanti del paese, per questo gli allacciamenti abusivi sono frequenti e le proteste contro gli aumenti delle tariffe all’ordine del giorno. E’ dal 2010 che si trascina la vertenza tra la nostra Enel, con la pesante complicità dell’ambasciata italiana in Guatemala, e la popolazione di Cotzal (dipartimento del Quiché), in lotta per scongiurare la costruzione di un impianto idroelettrico a Palo Viejo: anche in quel caso lo Stato ha preferito chiedere l’intervento dell’esercito, presentatosi in assetto antisommossa nel piccolo municipio causando il terrore tra la popolazione. Il ricordo è andato agli anni ’80, quando le comunità maya erano sottoposte a veri e propri rastrellamenti ad opera degli squadroni della morte che agivano per conto della dittatura. Al tempo stesso lo Stato ha sempre rifiutato di rispettare l’autorità e la democrazia comunitaria dei maya, rispondendo sempre con l’uso della forza e l’attuazione dello stato d’assedio. Una repressione indiscriminata verso qualsiasi forma di opposizione sociale. La mobilitazione del 4 ottobre era si promossa dal campesinado maya, ma vi avevano aderito anche docenti, commercianti, casalinghe, impiegati delle imprese private. Tutti erano accomunati dal rifiuto della svendita della sovranità del paese, perpetrato quotidianamente attraverso la concessione dei fiumi alle multinazionali per la costruzione delle dighe e l’attuazione di una legislazione assai blanda che non tutela il territorio, ma approva le politiche escludenti e razziste condotte da una minoranza ai danni di un paese a larga maggioranza indigena.
Se questa è la pacificazione che il presidente Molina (su cui pende l’accusa di genocidio degli indigeni maya durante l’operazione tierra arrasada negli anni ’80) intende imporre al paese non c’è da stare allegri: da buon militare intende la pace come la fine dei conflitti sociali in corso, non come dialogo all’insegna del rispetto dei diritti umani, civili e sociali, e per il Guatemala questo significa tornare agli anni più bui di quel conflitto armato che ha insanguinato il paese dal 1960 al 1996.
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