Latina

Gli indigeni maya chiedono le dimissioni del ministro dell’interno e della difesa dopo la strage del 4 ottobre

Guatemala: somos todos Totonicapán

L’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ha raccolto prove schiaccianti sulle responsabilità dello stato guatemalteco
27 ottobre 2012
David Lifodi

Proteste per la strage di Totonicapán Alcuni giorni fa il Consiglio Onu per i diritti umani ha passato il Guatemala sotto la lente d’ingrandimento per quanto riguarda i diritti fondamentali. Il paese centroamericano sarà esaminato a meno di un mese dal massacro del 4 ottobre a Totonicapán, ma si tratta di un caso: ogni quattro anni l’Onu valuta lo stato dei diritti umani nelle 192 nazioni aderenti, la prossima settimana sarà il turno di Argentina e Perù.

Di certo, però, l’indagine Onu arriva in un momento in cui i diritti umani, civili, politici e sociali del Guatemala sono al minimo storico. Già nel 2008, in occasione del precedente examen periódico universal, il paese aveva ricevuto 43 osservazioni, tutte negative. Nel frattempo, al presidente Otto Pérez Molina è stato intimato dal capo delegazione della Commissione Onu contro l’impunità di separare le funzioni dell’esercito da quelle della polizia. Tutto il governo è impegnato a discolparsi dalle pioggia di accuse che identificano l’esecutivo come il mandante della mattanza di Totonicapán, dove otto indigeni k’iches furono uccisi dai militari durante una pacifica dimostrazione di protesta degli indigeni maya contro una serie di riforme anticostituzionali che Pérez Molina voleva far passare ad ogni costo, tra cui l’aumento delle tariffe di energia elettrica, la privatizzazione dell’istruzione, ma soprattutto la cancellazione delle autorità indigene. Nelle proteste avvenute nei giorni successivi ai fatti di Totonicapán, il presidente Molina ha ordinato che l’esercito non tornasse nelle strade, nemmeno per limitarsi a controllare la situazione. Non solo: ha delegato questo compito alla polizia ed ha deciso di rendere pubblico il protocollo che devono seguire le forze dell’ordine durante le manifestazioni di piazza. Infine, non trascorre giorno senza che lo stesso presidente dichiari di essere il primo ad esigere chiarezza su quanto accaduto al chilometro 170 della Carretera Interamericana. Tutto ciò fa parte di una grande operazione di distrazione di massa, volta a confondere le acque e a far cadere tutto nel dimenticatoio. Gli otto soldati tuttora detenuti in una caserma dell’esercito hanno dichiarato di aver sparato in aria, e comunque per legittima difesa, allo scopo di disperdere la folla. Falso. L’Instituto de Ciencias Forenses guatemalteco ha confermato che almeno tre dei manifestanti uccisi sono morti a causa delle pallottole sparate dall’esercito. In secondo luogo risulta troppo facile addossare la responsabilità del massacro al colonnello Juan Chiroy ed alla sua squadra: è lecito chiedersi cosa ci facessero gli uomini dell’esercito in tenuta antisommossa per le strade e da chi avevano ricevuto l’ordine. Lo stato ha il compito di proteggere i suoi cittadini, non di ucciderli. I rappresentanti dei 48 cantones di Totonicapán hanno chiesto di incontrare il presidente di turno ogni volta che hanno percepito come ingiuste alcune leggi o decisioni dello stato: nel 2005 riuscirono a bloccare la Ley General de Aguas e nel 2011 scesero di nuovo in piazza per protestare contro l’aumento delle tariffe elettriche. Mai però era accaduto che, durante l’incontro istituzionale, i militari avessero ricevuto dal governo l’ordine di una repressione indiscriminata. Molina finora è riuscito a resistere di fronte alla richiesta della Coordinadora de Organizaciones Maya, che vuole sottoporlo a giudizio immediato allo scopo di incriminarlo come principale responsabile della strage del 4 ottobre. In questo caso il presidente deve ringraziare la Corte Suprema di Giustizia, che ha ritenuto di non intravedere un nesso tra la repressione dell’esercito e Pérez Molina, come se non esistesse una catena di comandi che ha concesso il via libera ai militari. Curiosamente, la proposta di mettere in stato d’accusa il presidente proviene da Édgar Ajcip, deputato di Libertad Democrática Renovada (Lider), formazione politica anch’essa di destra che sosteneva il ricco imprenditore Manuel Baldizon, sconfitto proprio da Pérez Molina in occasione del ballottaggio presidenziale del novembre 2011. In ogni caso, Pérez “mano dura” Molina, a lasciare la presidenza o a sottoporsi a giudizio non ci pensa minimamente, così come non sono assolutamente intenzionati a dimettersi il ministro della Difesa Ulises Anzueto e quello dell’interno Mauricio López Bonilla, nonostante le pressioni provenienti dai movimenti sociali. La Coordinadora de Organizaciones Maya ha già manifestato l’intenzione di rivolgersi alla Corte Interamericana de Justicia, pur di inchiodare Molina alle sue responsabilità, e l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ha raccolto prove schiaccianti che mostrano precise responsabilità dello stato guatemalteco per i fatti del 4 ottobre scorso. Inoltre, è stata pubblicata su diversi quotidiani una foto in cui si vede un soldato che punta un fucile verso i manifestanti. Il ministro della Difesa Anzueto ha provato a dimostrare che il militare non ha il dito sul grilletto, salvo poi dover ammettere che almeno sette soldati avevano sparato e per giunta utilizzando fucili di grosso calibro. Nonostante il governo stia facendo ricorso a tutta la sua arte dialettica pur di discolparsi dal massacro di Totonicapán, non rinuncia a lanciare stoccate maligne e provocatorie. Secondo il ministro dell’interno López Bonilla la reazione dell’esercito sarebbe stata scatenata da un non meglio precisato individuo civile che avrebbe sparato verso i manifestanti da un camion in transito vicino ai mezzi militari. Di più: il Pubblico Ministero avrebbe già identificato gli autori dell’attacco ai militari sfociato poi nell’incendio appiccato ad un veicolo dell’esercito. Fa bene Rigoberta Menchú, Nobel per la Pace nel 1982, al pari di altre organizzazioni sociali, ad esigere un’inchiesta indipendente: si tratta di provocazioni volte a ribaltare una situazione chiarissima, quella di un attacco a freddo e preordinato ai danni degli indigeni maya, nessuno dei quali era armato.

Tra maggio e giugno era stato dichiarato lo stato d’assedio contro la comunità di Santa Cruz Barillas in lotta per scongiurare la costruzione di una diga, a cui era seguita una lista chilometrica di violazioni dei diritti umani unita al riemergere di un preoccupante razzismo di stato, adesso la mano dura ha colpito Totonicapán, dove martedì scorso le comunità indigene sono tornate a marciare per chiedere verità e giustizia per i campesinos assassinati il 4 ottobre scorso.

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www. peacelink.it
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