Latina

A L’Avana riforma agraria e giustizia sociale al centro dei negoziati

Colombia: le Farc dichiarano la tregua fino al prossimo 20 gennaio

L’oligarchia terriera contraria agli accordi di pace
21 novembre 2012
David Lifodi

La tregua dal 20 novembre al prossimo 20 gennaio 2013 caratterizza il primo passo dei colloqui avviati a L’Avana dalle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) e gli emissari di Palacio Nariño: l’annuncio del capo delegazione dei guerriglieri, Iván Márquez, sembra andare nella direzione richiesta più volte dalla società civile: “Terminar la guerra, construir una paz durable”.

Si tratta di un inizio positivo nel contesto di un negoziato affatto semplice e che, in ogni caso, segna un punto a favore delle Farc. La palla passa adesso ad un governo che, pur resosi conto dell’impossibilità di sconfiggere militarmente la guerriglia, vuol trattare la pace da un punto di forza. Sugli accordi di pace pesa infatti la questione dei paramilitari, in passato direttamente al servizio del presidente Uribe e che tuttora godono di una certa influenza tra i palazzi del potere. Troppo spesso i paras hanno agito nella più completa impunità. Proprio il giorno prima del cessate il fuoco, la Liga de Mujeres Desplazadas ha denunciato le minacce ricevute dal gruppo paramilitare Águilas Negras, erede delle famigerate Autodefensas Unidas de Colombia (Auc, di estrema destra), resosi responsabile, in più di una circostanza, di violazioni dei diritti umani, omicidi e sparizioni forzate. Eppure la società civile colombiana, quella che spesso si è trovata nel mezzo di un conflitto combattuto da tre attori, guerriglia, paras ed esercito governativo, spera ardentemente nella pace, a maggior ragione dopo la tregua dichiarata due giorni fa. Da parte delle Farc non si tratta solo di un segnale di buona volontà: più volte la guerriglia si è rivolta alla popolazione invitandola ad accompagnare il processo di pace improntandosi “alla vera democrazia, alla sovranità popolare e alla giustizia sociale”. I cinque punti proposti dagli insurgentes allo stato colombiano (questione agraria, partecipazione democratica dei cittadini alla vita politica, fine del conflitto armato, lotta contro il narcotraffico, ed il riconoscimento dei diritti spettanti alle vittime della guerra civile) rappresentano un’agenda impegnativa, ma orientata verso la fine delle ostilità. In Colombia tutti i fattori che nel 1964 spinsero i settori più poveri del campesinado ad organizzarsi militarmente per la guerriglia sono rimasti intatti. “La lotta armata”, specificano le Farc “era determinata da valide motivazioni, allora come oggi, ma se la situazione cambia anche noi muteremo le nostre modalità di lotta”. Rodrigo Granda, uno degli esponenti più rispettati delle Farc, partecipante ai negoziati in corso a L’Avana e da tempo conosciuto come “il ministro degli esteri” della guerriglia, spiega che “la Colombia è l’unico paese dell’America Latina dove non è stata attuata la riforma agraria ed esistono latifondi fino a centomila ettari, mentre l’87% dei contadini non ha la terra per lavorare”. Passerà probabilmente dalla richiesta di una riforma agraria integrale l’eventuale riavvicinamento tra lo stato  colombiano e la guerriglia. Si tratta dell’aspetto più complesso sulla strada degli accordi di pace. Difficilmente l’oligarchia colombiana accetterà che i suoi rappresentanti assistano senza batter ciglio ad una confisca delle terre seguìta da una redistribuzione tra i campesinos. Proprio i terratenientes avevano già mostrato insofferenza in occasione dei colloqui di Oslo, che nel mese di ottobre hanno preceduto quelli attualmente in corso a L’Avana sotto lo sguardo di Norvegia e Cuba, paesi promotori e garanti del dialogo. L’oligarchia terriera ha sempre tifato per una sconfitta militare della guerriglia. In pratica, i settori della destra più dura vorrebbero riservare alle Farc lo stesso trattamento subìto da Unión Patriótica, il partito di sinistra fondato nel 1985 e che aveva abbandonato la via militare nella convinzione della partecipazione democratica alla vita politica come la strada ideale, ma tremila dei suoi militanti furono assassinati. In un paese da quasi cinquanta anni in guerra permanente, impegnarsi politicamente in un contesto legale è tutt’altro che scontato: sindacalisti, militanti di sinistra, attivisti per i diritti umani, indigeni e contadini sono tuttora perseguitati e molti di loro sono stati eliminati. L’ultimo caso riguarda Miguel Ángel Pabón Pabón, desaparecido dallo scorso 31 ottobre, militante ambientalista impegnato a sostenere la lotta dei desplazados (gli sfollati) della Región del Magdalena Medio per scongiurare la costruzione di una centrale idroelettrica sul Rio Sogamoso che avrebbe un impatto devastante sull’ambiente circostante e, di conseguenza, sugli abitanti della zona. La questione delle centrali idroelettriche, al pari dell’estrazione mineraria, della monocoltura della soia e delle fumigazioni, è attribuibile ad uno stato che ha abdicato alle imprese straniere la sovranità territoriale e, di conseguenza, si è disinteressato della giustizia sociale a danno del suo stesso popolo. Il negoziato non potrà prescindere da questi aspetti, utilizzati dai vari presidenti susseguitisi alla guida del paese per militarizzare il territorio utilizzando la scusa della guerra al narcotraffico. In questo contesto la smilitarizzazione da parte dello stato assume un ruolo fondamentale. Inoltre, dai negoziati in svolgimento a L’Avana dovrebbe derivare, nelle speranze della società civile, la ratifica di fori regionali che portino fino al Parlamento le istanze di pace, a partire da un accordo umanitario che tuteli realmente la popolazione. Dalla guerra civile è derivato il fenomeno del desplazamiento, che ha investito almeno tre milioni e mezzo di colombiani trasformatisi in rifugiati interni, dovuto non solo ai conflitti ambientali e alle attività squadriste dei paramilitari, ma anche all’atteggiamento discutibile delle forze guerrigliere, le quali non hanno mai visto di buon occhio esperienze comunitarie di notevole spessore, da quella dei Nasa e della guardia indigena del Cauca alle comunità in resistenza dichiaratesi neutrali nel conflitto in corso (soprattutto quella di San José de Apartadò) e per questo ritenute conniventi con lo stato.  Infine, sul buon esito dei negoziati pesa la vicenda di Simón Trinidad, uno dei comandanti delle Farc, condannato a 60 anni di prigione negli Stati Uniti dagli inizi del 2005 per la sua responsabilità nella cattura di tre contractors americani. La sua partecipazione ai colloqui di pace, almeno virtuale, permetterebbe di giungere ad un disgelo tra la guerriglia e gli Stati Uniti: la Casa Bianca stanzia ogni anno miliardi per il Plan Colombia (sorto ufficialmente per combattere il narcotraffico, ma utilizzato in realtà contro le Farc), e trae lauti guadagni dalle commesse militari.

Il dialogo proseguirà probabilmente tra alti e bassi, ma adesso i segnali di pace devono provenire anche da un governo che finora ha preferito non sbilanciarsi troppo.

 

 

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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