Argentina: braccio di ferro sulla Ley de Servicios de Comunicación Audiovisual
Ieri è entrata in vigore la Ley de Servicios de Comunicación Audiovisual, fortemente voluta dalla presidenta Cristina Kirchner e dal governo di centro-sinistra: la legge, approvata dal Parlamento il 10 ottobre 2009, intende democratizzare il sistema argentino delle telecomunicazioni, arginare il latifondo mediatico dagli imperi che hanno monopolizzato l’informazione, sostituire le norme di settore risalenti alla dittatura militare.
Una ley de medios innovativa non solo a livello latinoamericano, che però ha dovuto fare i conti con il principale gruppo editoriale argentino, il Clarín, trasformatosi in uno dei più potenti media di opposizione alla presidenta, capace di condurre una durissima battaglia per evitare di adeguarsi alla legge, obiettivo raggiunto, per ora, grazie a giudici compiacenti. Di fronte al monopolio della comunicazione da parte di veri e propri potentati economici, capaci di influenzare in maniera crescente l’intera società latinoamericana (si pensi al ruolo di Televisa e Tv Azteca durante la campagna elettorale per le presidenziali messicane o alla potenza mediatica del gruppo brasiliano Globo, che raggiunge quotidianamente 120 milioni di persone e conduce vere e proprie crociate contro i movimenti sociali), la Ley de Servicios de Comunicación Audiovisual si propone di migliorare la distribuzione di licenze e concessioni a radio e televisioni ed assegnarle tramite concorso. Inoltre, la legge prevede la cessione obbligatoria di un terzo delle frequenze ad associazioni senza fini di lucro, concedendo i restanti due terzi allo Stato e al settore commerciale. E ancora: la legge intende limitare lo spazio pubblicitario, ridurre al 30% la presenza del capitale straniero nelle aziende di telecomunicazione e attribuire una parte delle frequenze alle istituzioni (dalle province ai municipi, passando per i quartieri). Lo scopo del governo, da cui è derivata la levata di scudi del Clarín, è quello di impedire la concentrazione dell’informazione nelle mani di pochi gruppi editoriali, a vantaggio della pluralità e della democratizzazione del sistema informativo argentino. Nello specifico, la ley de medios prevede che un’azienda o un singolo imprenditore non possano possedere più di ventiquattro televisioni via cavo e dieci licenze di radiodiffusione. Dimostrare che il Clarín è un latifondo mediatico è molto semplice: il gruppo è proprietario di oltre 250 licenze. Una delle sue tante imprese partecipate, Cablevisión, dispone da sola del 58% del servizio via cavo nel paese, ma la nuova legge non ammette che sia superata la soglia del 35%. Il gruppo è proprietario di cinque giornali, 264 canali tra radio e tv, e addirittura di providers internet: immaginate la potenza che ha sprigionato nel 2009 in occasione del conflitto tra agrari e Cristina Kirchner, che aveva il fine ultimo di rovesciare il governo. I continui strepiti e le urla del Clarín, che entro il 7 dicembre avrebbe dovuto adeguarsi alla Ley de Servicios de Comunicación Audiovisual, hanno però consentito al gruppo di ottenere un importante, quanto discutibile, successo. La Cámara Nacional Civil y Comercial, tramite i giudici María Susana Najurieta e Francisco de las Carreras, ha infatti legiferato a favore del Clarín, impedendo l’applicazione dell’articolo 161 della ley de medios, che prevede l’adeguamento entro un anno alle norme sancite dalla legge. Il verdetto lascia notevoli perplessità. Innanzitutto perché va contro quanto stabilito lo scorso 23 maggio dalla Corte Suprema de Justicia, secondo la quale il 7 dicembre era indicato come il termine massimo entro cui il gruppo Clarín doveva adeguarsi alla legge. In secondo luogo, denuncia Martín Sabbatella, direttore dell’Autoridad Federal de Servicios de Comunicación Audiovisual (Afsca), i giudici che hanno decretato il verdetto hanno partecipato ad incontri svoltisi a Miami, finanziati dal Clarín e denominati foros anti ley de medios: questo la dice lunga sulla loro imparzialità. Addirittura ad uno di loro, Francisco de las Carreras, è stato pagato anche il viaggio a Miami. Sabbatella, da sempre convinto che un’informazione democratica passi inevitabilmente attraverso l’utilizzo di radio e televisione come strumenti al servizio della comunità e della società civile, ha parlato di una decisione “vergognosa” ed ha puntato l’indice contro la Cámara Nacional Civil y Comercial, ritenuta “il braccio giuridico del Clarín”. Per il momento hanno vinto quelle corporazioni mediatiche che fanno capo, principalmente, alla Sociedad Rural, fiera sostenitrice del Clarín e impediscono, di fatto, l’applicazione completa della legge. Eppure, non tutti i grandi gruppi economici argentini hanno sfoderato il loro apparato mediatico, come ha fatto il Clarín, per evitare di sottomettersi alla legge: almeno quattordici su ventuno hanno deciso di adeguarsi alla ley de medios. Ad esempio il Grupo Uno, di cui sono proprietari i fratelli Daniel e Alfredo Vila, insieme a José Luis Manzano, ha preso la decisione di dividere l’azienda in quattro parti, evitare la moltiplicazione delle licenze e vendere le sedici in eccedenza, tra cui il segnale via cavo América 24. Il Grupo Ick ha invece preferito abbandonare il settore delle telecomunicazioni per dedicarsi quasi esclusivamente al versante energetico. Néstor Ick manterrà solo le licenze di Castv e Canal 7. “Qué te pasa Clarín, estás nervioso?”, la stoccata che riservò al gruppo l’allora presidente Néstor Kirchner, all’inizio del conflitto tra il potente gruppo economico e il governo di centro-sinistra, è stata ripresa dai mezzi di comunicazione comunitari e dai quotidiani di controinformazione che ieri avevano chiamato alla mobilitazione per chiedere la piena applicazione della Ley de Servicios de Comunicación Audiovisual, insistendo sulla comunicazione come un diritto dei popoli e sulla necessità pluralità di voci in grado di diffondere notizie che interessino realmente i settori sociali della società argentina. Héctor Magnetto, il padre-padrone del Clarín, è sempre riuscito a rendere impermeabile alle contestazioni il suo gruppo editoriale che, non dimentichiamolo, è andato a braccetto con i militari negli anni della dittatura: uno dei suoi più stretti collaboratori vantava un’amicizia con il generale Domingo Bussi (scomparso di recente) ed innumerevoli sono state le campagne condotte dal quotidiano contro madres e abuelas alla ricerca dei figli dei desaparecidos consegnati a famiglie vicine alla giunta che, nel 1976, oscurò la democrazia in Argentina. Con buona pace del Clarín, il relatore speciale alle Nazioni Unite Frank La Rue, guatemalteco, ha più volte espresso gradimento per la Ley de Servicios de Comunicación Audiovisual, indicandola come un esempio per gli altri paesi latinoamericani nel segno della libertà di espressione, della pluralità dei media e della circolazione delle idee. Nonostante l’opposizione anti-kirchnerista abbia accusato Cristina e il suo governo di essersi battuti per questa legge allo scopo di avere una stampa amica, la ley de medios rappresenta un passo fondamentale nel restituire agli argentini un’offerta pubblica e comunitaria partecipata e democratica. Leggi simili, sempre in America Latina, vengono dalla Ley de Responsabilidad Social de Radio y Comunicación, varata in Venezuela, che condanna la diffusione di messaggi portatori di odio e intolleranza per motivi religiosi, politici, di genere, razziali, e dalla Ley de Radiodifusión y Televisión in Ecuador, dove viene dedicato ampio spazio alla promozione di valori etici, sociali, morali e civici rispettosi delle differenti culture presenti nel paese.
Lo sviluppo dei media pubblici e comunitari negli stessi Ecuador e Venezuela (dove i governi hanno disposto che le banche, gli organismi finanziari e i loro azionisti non possano sedere nei consigli di amministrazione dei mezzi di informazione), oltre a Uruguay e Bolivia, rappresentano un baluardo contro i tentativi di monopolio imposti dai grandi gruppi economici come il Clarín: contro la sentenza della Cámara Nacional Civil y Comercial, l’ Autoridad Federal de Servicios de Comunicación Audiovisual ha già presentato ricorso.
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