Messico: l’insediamento di Enrique Peña Nieto tra vaghe promesse e repressione
Sabato 1 dicembre il Messico è entrato ufficialmente nel sessennio di Enrique Peña Nieto, il presidente priista che si è insediato con pieni poteri a Los Pinos: per il paese si tratta di un viaggio senza ritorno, tra le vaghe promesse di modernità, benessere e maggiore giustizia sociale sbandierate dal mandatario durante la cerimonia di inizio mandato e il pugno duro mostrato (e rivendicato con orgoglio) ad un’intera nazione che lo ripudia.
Il Messico è un paese dove le disuguaglianze sociali crescono quotidianamente, e non può essere altrimenti per uno stato sottoposto a iniezioni massicce di neoliberismo: disoccupazione, bassi salari, esclusione sociale la fanno da padrone in un paese in cui, nonostante tutto, il sottoproletariato, gli indigeni, i poveri, gli studenti e tutte le componenti desde abajo hanno aperto centinaia di vertenze sociali. Proprio gli studenti, dopo essere apparsi sulla scena negli ultimi mesi di una campagna elettorale truccata dalle tv Televisa e Tv Azteca, aver contestato il presidente in pectore in una delle più esclusive università del paese, l’Iberoamericana (da cui in teoria dovrebbe uscire la classe dirigente del futuro), hanno chiamato di nuovo alla mobilitazione, che di fatto non si è mai interrotta fin dal giorno successivo alla pseudo-vittoria elettorale di Peña Nieto con migliaia di voti comprati. Con loro il Movimiento de Regeneración Nacional (Morena) di López Obrador, a cui è stata scippata la vittoria alle presidenziali dal grande capitale schierato a difesa di Peña Nieto. Un articolo pubblicato su La Jornada dal grande scrittore Paco Ignacio Taibo II racconta bene quello che succedeva fuori dal palazzo presidenziale, mentre Peña Nieto pronunciava i suoi buoni propositi di fronte al mondo intero. Si parla di vandali pagati dal governo che colpivano e rientravano tra le file dei federales, i poliziotti che hanno ricevuto l’autorizzazione ad usare la mano dura, di gruppi non meglio identificati chiamati a Città del Messico, per loro stessa ammissione, allo scopo di “rompere le ossa al movimento YoSoy132” (e ricompensati con trecento pesos ciascuno) e, ancora, di giornalisti picchiati, lacrimogeni sparati ad altezza uomo e manifestanti pacifici picchiati dalla polizia, che ha utilizzato proiettili di gomma. Insomma, dal punto di vista dell’ordine pubblico Peña Nieto ha mantenuto le abitudini di quando era governatore del Messico: allora, era il 2006, represse con violenza la mobilitazione della gente di Atenco, in lotta contro la costruzione di un aeroporto, motivandola con il “diritto ad usare la forza pubblica per ristabilire l’ordine”. Così, mentre all’esterno dei palazzi del potere il Pri (Partido Revolucionario Institucional) ed i suoi scagnozzi cercavano di pacificare una capitale ormai fuori controllo, a Los Pinos andavano in onda i buoni propositi del presidente, la cui carriera è stata fin qui costellata da corruzione, autoritarismo e abusi di potere. Peña Nieto ha iniziato il suo discorso con una gaffe, dicendo che il percorso democratico in Messico è iniziato dal 1968, l’anno della strage degli studenti a Tlatelolco, la Piazza delle Tre Culture, avvenuta il 2 ottobre. Subito dopo si è detto convinto che il Messico abbia di fronte un’opportunità storica, quella di decollare a livello economico. Già qui è sembrato di ascoltare i peggiori Ernesto Zedillo e Salinas de Gortari, quelli che promisero ai messicani che il paese sarebbe entrato nel cosiddetto primo mondo. Erano gli anni ’90, quelli dell’adesione al Nafta. Il presidente ha avuto perlomeno il buon gusto di accorgersi che il Messico viaggia a due velocità, una di progresso e sviluppo e l’altra di ritardo e povertà, e ha finto di impegnarsi per un Messico inclusivo, senza spiegare però come raggiungere l’obiettivo, se non dichiarare, in maniera vaga, che il suo scopo è quello di far entrare il paese tra le economie emergenti. Preoccupa, invece, la sua attenzione alla política de seguridad. Peña Nieto ha garantito il suo impegno per creare al più preso una gendarmeria nazionale, cioè un’ulteriore forza di polizia che dovrebbe occuparsi esclusivamente di trattare con i cittadini: si tratta dell’ennesima forma di militarizzazione per una società civile già fiaccata da una vera e propria guerra condotta contro le classi popolari dalle precedenti presidenze di Felipe Calderón, Vicente Fox e dai loro predecessori. Tutto il paese rischia di trasformarsi in Oaxaca, lo stato della federazione che più volte si è ribellato al suo governatore Ulises Ruiz. Inoltre, la maggioranza che appoggia Peña Nieto è composta da quella lobby delle armi che continua a sostenere, in chiave esclusivamente repressiva, la lotta al narcotraffico, allo scopo di trarre guadagno dalle commesse milionarie con l’industria bellica statunitense. In questo contesto la stessa amministrazione Obama ha grandi responsabilità, se non altro per il suo programma “caminos hacia la prosperidad”, che tende a privilegiare i paesi del continente che hanno stretto accordi di libero commercio con gli Usa, e mette i bastoni tra le ruote a quelli che si battono per la sovranità territoriale del continente latinoamericano. Attualmente il Pri governa venti dei trentadue stati della federazione messicana, e lo fa secondo le sue caratteristiche: controllo sociale e regime di polizia. Sulla riforma dell’istruzione, del sistema fiscale, e addirittura sul progetto di rendere trasparenti i conti del paese, il presidente non si spinge più in là delle buone intenzioni.
Dall’altra parte della barricata Peña Nieto non si troverà solo gli studenti di YoSoy132, quelli che hanno fatto nascere la primavera messicana, ma anche i movimenti impegnati in difese delle risorse idriche, gli ambientalisti, i sindacati autonomi dei maestri (non quelli gialli diretti da Elba Esther Gordillo, una delle donne più potenti del paese), il poeta Javier Sicilia e i marciatori che hanno percorso il Messico per denunciare la corruzione e i legami tra crimine organizzato e palazzi del potere, i lottatori sociali delle campagne e delle città. Questo è il Messico ribelle, quello che farà di tutto per cacciare un presidente giunto al potere illegalmente e solo grazie ai poteri forti che imperversano nel paese.
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