Ecuador: Rafael Correa rieletto alla presidenza del paese
L’unico dubbio che aleggiava sulle presidenziali svoltesi ieri in Ecuador era se il presidente Rafael Correa avrebbe conquistato la maggioranza al primo turno o se invece il paese avesse dovuto aspettarsi un ballottaggio. Il verdetto delle urne è stato schiacciante: Correa si è riguadagnato la conferma a Palacio de Carondelet al termine di una campagna elettorale che non ha riservato alcuna sorpresa: distaccatissimo il candidato più pericoloso delle destre, Guillermo Lasso, briciole per Alberto Acosta, candidato della sinistra sociale.
La rielezione di Correa, stimato per il momento al 61% dei consensi, rappresenta un risultato significativo per un paese che, negli ultimi decenni, non aveva mai assistito alla presenza a Palacio de Carondelet dello stesso presidente per più di cinque anni., ma, anzi, era abituato a profonde crisi politiche, governi corrotti e mandatarios cacciati a furor di popolo dalle mobilitazioni sociali. Inoltre, la massiccia partecipazione al voto della cittadinanza segna un altro punto a favore del presidente ecuadoriano. “La Revolución Ciudadana avanza e non la fermerà niente e nessuno”, ha ripetuto più volte Correa non appena ha avuto la certezza della vittoria, dichiarando che gli ulteriori quattro anni alla guida del paese serviranno per attuare quelle riforme necessarie per cambiare il paese. Tutto sta nel vedere come il presidente riuscirà a coniugare un Ecuador più giusto, solidale e ambientalmente sostenibile fondato sul buen vivir con la costruzione delle centrali idroelettriche e l’estrazione mineraria. Alberto Acosta, candidato dell’Unidad Plurinacional de las Izquierdas, ha più volte provato a porre l’accento sulle contraddizioni di Rafael Correa, forte dell’appoggio di una decina di organizzazioni della sinistra che avevano fatto della trasparenza, a partire dalla scelta dei candidati alla competizione elettorale, un aspetto distintivo. La corsa di Acosta e della sua vice, l’afroecuadoriana Marcia Caicedo, anch’essa molto critica verso la Revolución Ciudadana, si è fermata molto presto: non più del 3% degli elettori ha deciso di concedere la propria fiducia all’Unidad Plurinacional de las Izquierdas, la cui sconfitta è netta. In realtà, i sondaggi preannunciavano percentuali piuttosto basse per Acosta, ma il 2,81% segna una vera e propria batosta. Il risultato uscito dalle urne ha rafforzato la popolarità di un presidente che ha visto il consenso nei suoi confronti crescere di quasi 10 punti percentuali rispetto al 2009: la sua formazione politica, Alianza País, avrà probabilmente un numero di seggi che le permetterà di esercitare una maggioranza qualificata di due terzi all’Assemblea Nazionale. Il successo di Rafael Correa rafforza il vento progressista che spira in molti paesi del continente, pur con le dovute differenze di merito e di metodo nella gestione dello stato, e deriva soprattutto da un voto che, per certi aspetti, va oltre il tradizionale schema destra/sinistra. Aldilà delle dichiarazioni bellicose di Guillermo Lasso (Creo, Creando Oportunidades), che comunque ha raggiunto un insperato 21% insistendo sulla necessità di ratificare un trattato di libero commercio per l’Ecuador ed ha goduto dell’appoggio della potente organizzazione religiosa ultraconservatrice Opus Dei (di cui è membro), Correa ha fatto il pieno dei voti di quella classe imprenditoriale che ha apprezzato la crescita economica su cui si è incamminato il paese. Il miglioramento dei trasporti e la costruzione di nuove infrastrutture, che facilitano lo spostamento delle merci, è un risultato che la borghesia ecuadoriana ha attribuito a Rafael Correa e per questo lo ha appoggiato. Al tempo stesso, gli strati sociali più poveri hanno notato alcuni miglioramenti nella qualità della vita grazie al bono de desarrollo, salito da 35 a 50 dollari mensili, agli investimenti nello sviluppo sociale, nell’istruzione e nelle politiche di impiego e redistribuzione del reddito. La presenza di Correa a Palacio de Carondelet ha significato per il paese non essere più considerato all’estero come una sorta di “repubblica delle banane”: grazie alla nuova Costituzione hanno potuto votare i giovani a partire dai 16 anni e i migranti, in un paese che già alla fine degli anni ’70 riconosceva il diritto di voto agli analfabeti. Correa ha messo in atto un processo di inclusione politica che ha ampliato i diritti sociali e ne ha tratto beneficio in termini di voti. È in questo contesto che è maturata l’affermazione del correismo, che però, come detto altre volte, presenta anche una serie di aspetti più che discutibili. Riassume bene le contraddizioni di Correa Pablo Davalos, intellettuale ecuadoriano e docente universitario, che in più di una circostanza ha stigmatizzato la criminalizzazione dei movimenti sociali operata dal presidente. I casi più evidenti riguardano i rapporti assai tesi con le comunità indigene, i movimenti ambientali, quelli in difesa dell’acqua e contrari all’estrazione mineraria, strettamente legati al caso dei “dieci di Luluncoto”, sebbene Correa, almeno a parole, sostenga di voler perseguire il socialismo del XXI secolo. Altri intellettuali ed economisti, più vicini al presidente, spiegano che il voto a Correa deriva dal desiderio di stabilità politica degli ecuadoriani, e in questo senso, si spiega la sonora bocciatura uscita dalle urne per i vari Álvaro Noboa (il magnate del settore bananiero) e l’ex presidente Lucio Gutierrez, entrambi fermi a percentuali ridicole.
Per Rafael Correa si apre una nuova fase alla presidenza del paese: se decidesse di cercare un dialogo con i movimenti indigeni e ambientalisti e i movimenti popolari che chiedono una reale equità e maggiore giustizia sociale, l’Ecuador potrebbe rappresentare una speranza per tutto il continente latinoamericano.
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