Venezuela: Nicolás Maduro presidente dopo una battaglia all’ultimo voto
Il proceso bolivariano procede, con fatica, ma va avanti: Nicolás Maduro sarà il futuro presidente del Venezuela fino al 2019. Il delfino di Chávez però è riuscito a guadagnarsi Miraflores solo al termine di un inaspettato testa a testa con lo sfidante Henrique Capriles e con uno scarto minimo dei voti: 50,66% per Maduro contro il 49,07% del candidato della Mesa de la Unidad Democrática (Mud).
L’esito delle elezioni presidenziali venezuelane sembrava scontato: quasi tutte le agenzie specializzate in sondaggi davano Maduro almeno dieci punti percentuali avanti a Capriles, alcune parlavano anche del 20%, nonostante all’inizio di aprile le piazze piene ai comizi del candidato della destra avessero fatto capire che di certo la Mud sarebbe riuscita ad evitare quantomeno la disfatta. Una sconfitta pesante della destra avrebbe probabilmente messo a tacere l’opposizione, ma l’esito di queste elezioni ha ridato speranze non solo alla Mud, ma anche ai detrattori del chavismo a livello latinoamericano ed europeo. In molti, anche in Italia, hanno abboccato, o hanno finto di farlo, al discorso “progressista” di Capriles: sulla stampa italiana i latinoamericanisti hanno gioco facile a dire che il Venezuela è un paese spaccato e che ormai il processo bolivariano ha i giorni contati. Inoltre, in molti continuano a ignorare il discorso eversivo condotto da Capriles: già prima delle elezioni aveva sbandierato al mondo intero che non avrebbe riconosciuto né il risultato elettorale né le garanzie offerte dal Consejo Nacional Electoral (Cne). Lo stesso Capriles insiste chiedendo che non avvenga la proclamazione di Maduro come presidente, parla di trecentomila voti dubbi (ma non fornisce le prove) ed ottiene l’appoggio degli Stati Uniti e dell’Osa, (l’Organizzazione degli Stati Americani) per il riconteggio dei voti. La richiesta dell’Osa lascia quantomeno perplessi: di fronte ai brogli accertati che hanno portato alla presidenza del Messico, a luglio 2012, Enrique Peña Nieto, vittorioso grazie alla compravendita di milioni di voti, l’Organizzazione degli Stati Americani non ha mosso un dito. A questo proposito va ricordato che lo stesso ex presidente Usa Jimmy Carter, che si occupa di monitorare i processi elettorali in tutto il mondo con il suo Centro Carter, ha tenuto a ribadire che tra i novantadue che ha seguito, quello venezuelano è stato senza dubbio il più trasparente. Il “moderato” Capriles, quello che addirittura prometteva di dare nuovo impulso ai piani sociali chavisti (tanto da concedere la cittadinanza ai medici cubani, disprezzati fino a pochi mesi prima e tacciati più volte di essere degli “infiltrati”), nell’aprile 2002 fu ritratto in tv mentre dava la caccia ai sostenitori chavisti durante il tentato golpe della destra filo padronale. Detto questo, è un dato di fatto che l’avversario di Maduro è riuscito a recuperare quasi cinque punti percentuali rispetto alle presidenziali dell’ottobre 2012, quando si fermò al 45% rispetto al 54% dei voti conquistati da Hugo Chávez. Del resto, due erano i timori che pesavano sulla campagna elettorale di Maduro. Il primo: l’Instituto Venezoelano de Análisis de Datos (Ivad) aveva sottolineato che almeno il 27% dei venezuelani era fortemente indeciso sul candidato da votare, ed evidentemente la maggioranza ha optato per Capriles. Il secondo aspetto riguarda quel travaso di voti in uscita verso il candidato della Mud da parte della boliborghesia, la classe emergente di nuovi ricchi con cui Chávez ha avuto un rapporto talvolta ambiguo e che comunque ha preferito votare per Capriles dopo aver ascoltato Maduro confermare la scelta di campo per il socialismo. Nel suo primo discorso tenuto di fronte ai venezuelani, Maduro ha parlato di vittoria senza ombre e grazie al sostegno delle classi popolari. Il nuovo presidente ha senz’altro dei buoni motivi per festeggiare, a partire dal fatto che il processo bolivariano è quello più longevo da quando si è imposta l’onda rosa-rossa dei presidenti latinoamericani (anche se molti di loro non hanno dato grande seguito alle promesse di cambiamenti radicali). Inoltre, il successo di Maduro, per quanto risicato, tiene a freno l’offensiva della destra radicale nel continente. Nei giorni precedenti al 14 aprile si erano rincorse voci inquietanti sia sulla presenza di paramilitari salvadoregni infiltrati, giunti in Venezuela per destabilizzare il processo elettorale e nuocere alla campagna di Maduro, sia sul presunto accesso di un tecnico del Psuv (Partido Socialista Unido de Venezuela) al sistema di conteggio dei voti, una voce, quest’ultima, messa in giro ad arte dalla Mud. Aldilà delle schermaglie tra i due poli, un’eventuale vittoria di Capriles avrebbe creato non poche difficoltà ai paesi dell’Alba (l’Alternativa Bolivariana per le Americhe) e ad organismi continentali quali Unasur (di cui a giugno il Venezuela assumerà la presidenza per sei mesi) e Mercosur. Al tempo stesso, Maduro non può esimersi da una riflessione all’interno del suo campo, dove pure le contraddizioni non sono mancate, anche se bisogna sottolineare come il nuovo presidente si sia trovato a condurre una campagna elettorale senza una macchina organizzativa rodata come quella di Capriles, che di fatto ha continuato a promuovere ininterrottamente la sua immagine fin dai giorni successivi alla sconfitta nelle presidenziali dello scorso ottobre. E ancora: il movimento bolivariano è riuscito a vincere le elezioni senza la figura di Hugo Chávez, dovendo affrontare negli ultimi mesi una vera e propria guerra condotta a livello nazionale e internazionale da una vastissima rete di oppositori al chavismo. Piuttosto, Maduro adesso avrà il difficile compito di mantenere l’unità del blocco chavista e non perdere il legame con tutti quegli elettori che intendono identificarsi con il modello sociale del presidente Chávez e con la sua forte connotazione politica: non a caso uno degli slogan più scanditi durante la campagna elettorale è stato Chávez, lo juro, mi voto es pa' Maduro. Il compito che attende il neopresidente non è dei più semplici, anche perché molto probabilmente tra tre anni dovrà fronteggiare il referendum revocatorio inserito nella Costituzione bolivariana dallo stesso Chávez, che peraltro lo aveva superato brillantemente. In particolare, Maduro dovrà cercare di combattere la corruzione, fenomeno purtroppo in crescita anche tra la burocrazia chavista, e dare impulso al Programa de la Patria 2013-2019, il progetto elaborato da Chávez contenente le basi di sviluppo del Venezuela futuro. A livello sociale, sarà fondamentale il mantenimento delle misiones, a partire dalla Gran Misión Vivienda, ma al centro dell’azione di Maduro ci dovrà essere, inevitabilmente, il rafforzamento delle organizzazioni politiche che rappresentano la base del processo bolivariano. A questo proposito, il socialismo del XXI secolo non può non passare dallo sviluppo di un forte movimento operaio, del campesinado e dalla scommessa sull’industrializzazione del paese, storicamente abbandonata. Attualmente in Venezuela ci sono almeno 1200 imprese recuperate, alcune delle quali fondate sulla totale autogestione operaia, altre basate su un modello misto tra cogestione dei lavoratori e sovvenzioni da parte dello stato. E ancora, Maduro non potrà esimersi dal confrontarsi con la questione indigena. É trascorso poco più di un mese dall’assassinio di Romero Sabino, leader degli indios yupka, in lotta per difendere la Sierra del Perijá, la cordigliera che si trova nello stato carbonifero di Zulia (al confine con la Colombia) dagli appetiti dei ganaderos: su questo aspetto il governo bolivariano non ha fatto molto, anzi, ha puntato sull’estrazione petrolifera in territorio indigeno senza considerare i diritti delle comunità che vi abitano.
Maduro è atteso da un compito non facile: da un lato fronteggiare i nuovi attacchi della destra, dall’altro proseguire sulla strade del chavismo: la Rivoluzione bolivariana si trova di fronte una congiuntura politica che non è delle migliori, ma per il momento prosegue il suo cammino nonostante i costanti tenatativi di destabilizzazione.
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