Venezuela: prove di golpe alla cilena
Fino a quando resisteranno la capitale Caracas e tutto il Venezuela? Cambiano le epoche, ma i tentativi che allora destabilizzarono il Cile di Salvador Allende e quelli in atto adesso (che in realtà proseguono almeno dall’aprile del 2002) per rovesciare il governo bolivariano, sono accomunati dagli stessi attori: Stati Uniti, gruppi eversivi interni (minoritari e pericolosi), le destre radicali latinoamericane. Di fatto, da oltre dieci anni il Venezuela si è trasformato, suo malgrado, in un laboratorio di colpi di stato permanenti per rovesciare un governo democraticamente eletto: si tratta della “globalizzazione della destabilizzazione” applicata a qualsiasi latitudine.
La grande stampa non ha mai parlato di ritorno del fascismo in Venezuela, anzi, tutti i principali mezzi di comunicazione hanno sottolineato l’illiberalità del presidente Maduro: eppure è evidente il ritorno sulla scena di gruppi apertamente filonazisti, ad esempio Orden, che si richiamano alla dittatura del presidente Marcos Pérez Jiménez, che governò il Venezuela tra il 1952 e il 1958 all’insegna di un viscerale anticomunismo. La destra golpista venezuelana, insieme alla Casa Bianca, prova a spingere sulla crisi economica e sociale che sta affrontando il Venezuela, nonostante il paese si trovi ai primi posti in America Latina per quanto riguarda il livello di istruzione e di assistenza sanitaria. La piaga dell’analfabetismo è stata debellata e i medici cubani, contro i quali è stata scatenata una vera e propria caccia all’uomo partita dai quartieri bene di Caracas, hanno svolto un lavoro degno di nota nei barrios della capitale e di tutto il paese. La povertà estrema è stata ridotta e, a livello internazionale, negli Stati Uniti devastati dall’uragano Katrina è stato proprio il Venezuela uno dei primi paesi ad offrirsi per portare aiuto. Eppure non basta, anzi. A meno di un anno dall’elezione a Miraflores di Nicolás Maduro, lo stesso presidente ha dovuto far fronte a diversi tentativi di rovesciarlo con la forza: l’opposizione, riunita sotto le insegna della Mesa de la Unidad Democrática (Mud), intende portare il paese al collasso pur di ridurre al silenzio il chavismo. È in corso una vera e propria contrapposizione di classe che potrebbe avere ripercussioni in tutta l’America Latina: i recenti colpi di stato in Paraguay e Honduras, uniti alle provocazioni contro la Bolivia, insegnano. Il Plan de Paz y Convivencia Nacional, lanciato da Maduro, è stato respinto a priori dall’opposizione. La situazione di caos nel paese ha già provocato una settantina di morti, dovuti sia a scontri tra le opposte fazioni sia ad episodi collaterali, tra cui i blocchi stradali imposti dall’ultradestra (che allena formazioni paramilitari all’interno dell’Università di Carabobo) in zone delle città adiacenti agli ospedali, danneggiamenti di edifici pubblici, assalti alla tv pubblica Venezoelana de Televisión (una delle poche non controllate dalla Mud), incendi di supermercati sfruttati per poter affermare che il paese è alla fame. Se in Venezuela esiste una dittatura, sembra evidente che è imposta da un’opposizione contraria a qualsiasi forma di apertura da parte di Maduro. Fedecamaras, la Confindustria nazionale, chiede al governo di voltar pagina e di farla finita con il socialismo del XXI secolo, ma come fidarsi di un organismo che ha promosso l’effimero quanto violento golpe dell’aprile del 2002 in combutta con l’allora presidente spagnolo Aznar e gli immancabili Stati Uniti? È caduto nel vuoto, ignorato a livello locale e internazionale, l’appello di Maduro, che si esprimeva con chiarezza per la fine delle violenze: Aquel que se llegara a poner una camisa roja con la cara de Chávez y sacara una pistola y agrediera a otro venezuelano, ese non es chavista ni revolucionario, irá a la cárcel igualmente. Sull’altro versante, non sembra che l’opposizione cosiddetta democratica abbia mai rilasciato dichiarazioni di questo tipo, ma continua a chiedere la salida, l’uscita di scena, di Maduro. Le elezioni municipali dello scorso dicembre, stravinte dal chavismo, hanno rappresentato un duro colpo per la Mud: la destra sperava nella spallata e invece si è dissolta nell’urna. La prossima tornata elettorale sarà rappresentata dalle legislative del 2015, un obiettivo troppo lontano: per questo si cerca la strada della destabilizzazione violenta. Leopoldo López, il leader più oltranzista della Mud e a capo del gruppo di picchiatori denominato Voluntad Popular, è stato arrestato dalla polizia con l’accusa di devastazione e istigazione a delinquere. È lui tra i principali organizzatori degli scontri di piazza e delle provocazioni che hanno costretto il governo alla reazione, con la Mud che ha avuto gioco facile nell’accusare Miraflores di repressione: un servizio del tg di Rai Tre dello scorso venerdì ha ritratto gli studenti delle scuole private con i cartelli che inneggiano alla sua liberazione, come se fosse un martire dei diritti umani. Questo non è un esempio di buona informazione, come anche il tentativo, nello stesso servizio, di capovolgere il senso del Caracazo del 27 febbraio 1989, associandolo, erroneamente, alla rivolta attuale dell’opposizione: allora si trattò dei riots partiti dai quartieri poveri di Caracas contro l’inflazione alle stelle dovuta ai diktat del Fondo Monetario Internazionale applicati senza batter ciglio dall’allora presidente (pseudo)socialdemocratico Carlos Andrés Pérez. Coperto sotto lo slogan qualunquista Contra la vida cara y la inseguridad, centinaia di studenti incappucciati hanno dato vita agli scontri nei quartieri più ricchi di Caracas, mentre María Corina Machado, altra esponente dell’opposizione più radicale, ripete che è necessario mettere fine alla tirannia: anch’essa è notoriamente legata all’estrema destra venezuelana. Dietro ai disordini che si susseguono da almeno due mesi in Venezuela, si nascondono gli Stati Uniti, che sono interessati a recuperare il controllo del paese non solo per motivazioni geopolitiche, ma anche perché il governo bolivariano gestisce una delle maggiori riserve petrolifere al mondo. Sono numerose, negli ultimi giorni, le dichiarazioni di politici statunitensi che ripetono come un mantra la necessità di un intervento militare in Venezuela per riportare la pace. Ad esempio, il funzionario del Dipartimento di Stato Usa Alex Lee ha dichiarato che la detenzione di Leopoldo López avrà serie ripercussioni, mentre il senatore repubblicano John Mc Cain ha già effettuato una vera e propria chiamata alle armi. Si attende solo un passo falso di Miraflores per scatenare la tempesta sul Venezuela, dove si fa sempre più concreto il rischio che si ripeta il colpo di stato del 13 aprile 2002.
Nel caos di questi ultimi giorni è rimasta coinvolta la fotoreporter italiana Francesca Commissari, giunta alcuni anni fa in Venezuela e impegnata a fotografare la realtà sociale di questo paese così complesso dal punto di vista politico. Commissari lavora per il quotidiano El Nacional, ferocemente antichavista, ma lei è (o perlomeno lo era) una simpatizzante della rivoluzione bolivariana, tanto da farsi ritrarre, per un concorso fotografico in Argentina, con un cartello con su scritto: “Se fossi venezuelana voterei per Chávez”. Di recente aveva mostrato delle perplessità verso el proceso portato avanti da Maduro e dalla sua squadra di governo, ma è probabile che sia stata arrestata in una retata generale della polizia in cui sono finite una quarantina di persone, peraltro tutte rilasciate, Francesca compresa. La Commissari ha trascorso 35 ore in caserma con l’accusa di “terrorismo internazionale”, decaduta nel giro di breve tempo: al momento in cui la polizia ne ha disposto il fermo la fotoreporter italiana stava riprendendo una manifestazione dell’opposizione in un quartiere antichavista nella zona est di Caracas. Per Francesca Commissari e gli altri giornalisti arrestati è stata convocata subito una manifestazione da parte dei colleghi di fronte al Tribunale di Giustizia, ma lei stessa ha confermato di non aver visto abusi e torture in carcere, come sostiene l’opposizione. Può anche darsi che l’arresto sia stato generato da una delle tante provocazioni del quotidiano El Nacional, che solo alcuni giorni fa titolava in prima pagina “Cubanos go home” e favoleggiava sulla partenza di un contingente militare da Cuba con destinazione Venezuela per reprimere le proteste di piazza: la notizia, ovviamente, era del tutto prova di fondamento. Finora Francesca ha descritto tutto ciò che ha visto durante queste drammatiche giornate in Venezuela.
Per una storia finita bene, quella della fotoreporter italiana, resta la profonda incertezza sulle sorti della rivoluzione bolivariana, che finora è riuscita a resistere di fronte a molteplici attacchi: saranno i prossimi giorni, o i prossimi mesi, a dire se il Venezuela chavista supererà anche questa prova o se le forze golpiste avranno avuto la meglio.
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