Edda Fabbri, ex prigioniera della dittatura uruguaiana, a Napoli sabato 17 maggio 2014
Edda Fabbri (Montevideo, 1949), uruguaiana di origine veneta, studentessa di medicina, militò nel Movimiento de Liberación Nacional Tupamaros e fu incarcerata per la prima volta nel 1971. Fu protagonista di una celebre fuga dal carcere della Calle Cabildo con altre 37 donne attraverso un tunnel sotterraneo, ma la libertà fu breve: dopo nove mesi fu arrestata nuovamente e rimase in prigione, in un carcere in cui la vita era durissima, segnata da torture e vessazioni, fino al 1985, quando la fine della dittatura implicò il rilascio dei prigionieri politici.
Oblivion è scritto magnificamente, in una prosa poetica che sintetizza messaggi universali senza indugiare negli aspetti crudeli e cruenti dell’esperienza vissuta, ma senza negarli, in una rielaborazione che deriva dalla grande profondità dell'autrice e da una sapienza narrativa che lei stessa, probabilmente, non sospettava di possedere; scritto dalla parte di una collettività che si era opposta e continuò a opporsi agli oppressori, resistendo quando resistere era un atto di grande coraggio, è intriso di solidarietà, di forza, di sentimenti positivi e parla di vita, di una vita che l’autrice ha amato anche, persino nella prigionia.
Edda Fabbri in questi giorni è in Italia e sabato 17 sarà a Napoli, presso la libreria Eva Luna, a partire dalle 17.30, per portare la sua testimonianza e discutere con tutti i presenti di quello che fu e della realtà che ne è seguita, insieme a Fabrizio Fiume, Rosa Maria Grillo, Marco Ottaiano e la sottoscritta.
Valentina Ripa
Prima edizione, in lingua spagnola: Montevideo, Ediciones del Caballo Perdido, 2007.
Premio Casa de las Américas 2007 nella Categoria Literatura Testimonial.
Edizione italiana: Traduzione e postfazione di Stefania Mucci, Introduzione di Rosa Maria Grillo, Salerno/Milano, Oèdipus, 2012.
INIZIO
Devo iniziare dal finale. Devo inventare un finale, anche se provvisorio, per poter cominciare. Il mio finale inizia nella caserma, in una cella del quarto piano, ai principi di marzo. Era il 1985. Ero sola, in quel momento, e avevo una radio. Le due cose (la solitudine e la radio) erano nuove. Per moltissimi anni non eravamo mai state sole. Mai, mai. Né per lavarci nel bagno né per nient’altro. C’era sempre qualcuno a guardarci. Non mi riferisco alle carceriere, o per meglio dire non solo a loro. Voglio dire che non si poteva stare da soli con il proprio corpo, né con nient’altro. Eppure quel giorno della fine ero sola e avevo una radio con le sue manopole. È importante il fatto delle manopole. A Radio 30 parlava Alberto Silva. Parlava di noi. Non di noi, di Lucia che era già uscita. Io sentivo che parlava di me, di noi. Descriveva Lucia e ci stava descrivendo tutte. Erano passati molti anni eppure non sembrava, diceva, Lucia era ancora la “ragazza dallo sguardo vivace”. Lei eravamo noi allora. In qualche modo, intatte, lo eravamo. Alberto Silva lo diceva e io sentivo che era vero. Quella ragazza era lì, il tempo intrappolato in un imbuto che l’inghiottiva. Non c’era altra soluzione, eravamo quella ragazza. Questo non vuol dire che eravamo condannate ad esserlo, a rappresentare quel ruolo.
……
OBLIVION, p. 52:
Sarebbe facile dire che scrivo contro l’oblio, ma non lo credo. Esiste un diritto all’oblio, anche.
Esiste un diritto a diffidare dei ricordi. Non so se si scrive per dimenticare o per ricordare. Però è contro qualcosa, contro quello che gli altri scrivono o altri tacciono. Forse anche contro il proprio silenzio, contro i propri ricordi ingannevoli. So che devo diffidare dei miei ricordi.
“L’oblio somiglia al perdono”, avevo scritto tempo fa. Ascoltavo quel tango, ogni nota perfetta, e l’ho pensato. Poi ho cercato nel dizionario. Forse poteva voler dire un’altra cosa. Ma non è un'altra cosa, è oblio. Non so per quale ragione Piazzolla abbia scelto il nome in inglese, forse per dimenticare qualcosa. Ha scelto così e io ho scritto: “Oblivion somiglia al perdono. Forse il perdono è questo, la musica che rimane dopo il ricordo”.
FINE
Devo iniziare dal finale, spogliarmi di nuovo, tessere il lento ordito dei giorni. Non so se sia sempre così lungo il cammino dell’oblio, se sia possibile andarsene realmente un giorno, o resta sempre qualcosa, un rumore, qualcosa che qualcuno guarderà un giorno senza paura. Devo iniziare dal finale, devo inventare un finale, anche se provvisorio, per poter cominciare.
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