Colombia: Santos presidente. Restano vive le speranze di pace
Mettiamola così: se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno, il ballottaggio che ha designato Juan Manuel Santos presidente della Colombia per il secondo mandato consecutivo rappresenta una flebile fiammella di speranza per la prosecuzione del processo di pace in Colombia, al termine di una campagna elettorale fratricida tra due fazioni dell’estrema destra colombiana, divisa tra i sostenitori dell’ex delfino di Uribe e coloro che ne desideravano il suo fallimento politico, e per questo hanno votato per Oscar Iván Zuluaga, suo acerrimo nemico.
Santos si è aggiudicato la contesa con il 50,45% dei voti rispetto al 45% di Zuluaga, che pure era in vantaggio dopo il primo turno delle presidenziali. Altissimo il numero degli astensionisti: quasi 620mila elettori hanno votato scheda bianca. La scelta dei colombiani non era delle più semplici: affidarsi ai sistemi mafiosi di Uribe, il cui nome ha aleggiato sugli sfidanti per Palacio Nariño durante tutta la campagna elettorale, e quindi votare Zuluaga, niente più di una marionetta nelle mani dell’ex presidente, o affidarsi a Santos, leggermente migliore solo per aver aperto il tavolo dei negoziati di pace con la guerriglia delle Farc, ma responsabile del dramma dei falsos positivos (quando era ministro e amico dello stesso Uribe) e più interessato a risolvere il conflitto armato soltanto per sbandierarne la promessa prima del voto e garantirsi così la riconferma alla guida del paese? Gli elettori hanno optato per Santos nel segno di un ragionamento non del tutto condivisibile se guardiamo solo agli ideali, ma realistico nell’arte di mediazione che è la politica, fatto proprio anche dalla sinistra. Nonostante le smentite di rito nei giorni seguenti al primo turno delle presidenziali, Polo Democrático, Unión Patriótica, Alianza Verde, Mujeres por la Paz e Poder Ciudadano y Progresistas hanno costituito il Frente Amplio por la Paz nella speranza che il voto a Santos avrebbe contribuito a mantenere vive le speranze di pace. Era chiaro, infatti, che se avesse vinto Zuribe, così i media hanno definito Zuluaga, proprio perché agli ordini di Uribe e con una capacità di autonomia inferiore a quella di un burattino, il primo atto del nuovo presidente sarebbe stato quello di sospendere il dialogo con la guerriglia. Più volte Zuluaga, in campagna elettorale, ha ripetuto: “La Colombia non può essere nella mani dei guerriglieri delle Farc che impongono i loro diktat dall’Avana, la sede dei colloqui di pace”. È in questo contesto che, a sinistra, è maturata la scelta di appoggiare Santos, pur con la consapevolezza che la sua presidenza è stata all’insegna del neoliberismo e non si è caratterizzata certo per i tratti di politica popolare e partecipata. Sarebbe interessante vedere quanti elettori del campo progressista, soprattutto quelli del Polo Democrático e di Unión Patriótica, si siano davvero recati alle urne per eleggere Santos, anche se la Gran Coalición por la Paz e contra el Fascismo si è costituita soprattutto per scongiurare una presidenza apertamente autoritaria, quella di Zuluaga, dove in realtà il vero presidente del paese sarebbe stato Uribe. Sebbene Santos sia il rappresentante della borghesia e delle transnazionali, la sinistra ha deciso di correre il rischio nel segno di una futura pace e democrazia: i prossimi mesi diranno se la scommessa è stata azzardata o meno. Di certo è stato sventato, almeno parzialmente, quello che è stato definito da molti come il fanatismo patriotero neofascista di cui si sono fatti portatori Álvaro Uribe e Zuluaga. Il dramma dell’opzione tra il militarista Zuluaga e l’amico delle multinazionali Santos ha caratterizzato l’intera campagna elettorale: da un lato una proposta politica, quella uribista, fondata su paramilitarismo e criminalizzazione del dissenso, dall’altro l’ambiguità di Santos, mitigata solo dal suo interesse (non si sa quanto per fini personalistici o nell’interesse del paese) per una pace sulle cui condizioni vuole comunque imporre l’ultima parola. Forse, in futuro, il voto a Santos permetterà un leggero quanto tutto da verificare spazio per le istanze dei movimenti, dalla giustizia sociale ai diritti sindacali passando per la tutela dei beni comuni, ma la sua rielezione, probabilmente, rappresenta solo una forma di autoritarismo più soft rispetto a quello della parapolitica apertamente propugnata da Oscar Iván Zuluaga e Uribe, che sotto il suo mandato ha aperto più volte le porte del Parlamento ai paras. Alla vigilia del ballottaggio, Farc ed Eln (l’altra forza guerrigliera, di ispirazione guevarista, anch’essa interessata ai colloqui di pace in corso all’Avana) si erano rivolti in maniera diretta ai due candidati a Palacio Nariño con una lettera molto dura. Da un lato i guerriglieri accusavano Santos di aver continuato le operazioni militari, compresi gli attacchi ad esponenti di primo piano delle Farc, dall’altro evidenziavano come la pace alle condizioni del presidente appena rieletto non avrebbe garantito la democratizzazione della vita di un paese stanco di una guerra che si trascina da 60 anni. La sconfitta di Zuluaga, probabilmente dovuta anche alla sua scarsa esperienza (escluso un mandato di tre anni in qualità di ministro di Uribe e la carica di sindaco del suo paese natale, Pensilvania, non più di 25mila anime) ha rappresentato anche il fallimento di Duda Mendonça, spin doctor della campagna elettorale che nel 2002 aveva condotto Lula alla presidenza del Brasile all’insegna del motto Lulinha paz y amor. Dalla sua Santos sembrava avere maggior esperienza, se non altro per aver fronteggiato un forte movimento sociale che, almeno sotto certi aspetti, è riuscito ad far valere i propri desiderata, vedi il paro agrario dell’agosto 2013 condotto da un ampio fronte di opposizione al trattato di libero commercio che lega mani e piedi la Colombia agli Stati Uniti, conclusosi con il Pacto nacional por el Agro y el Desarrollo Rural imposto al presidente dalle organizzazioni sociali, seppur ad un costo altissimo, con 12 morti e oltre 500 feriti. Lo sdoganamento di Santos, passato indenne anche attraverso un nuovo paro agrario, lo scorso aprile, si è avuto quando Gustavo Petro, sindaco della capitale Bogotà destituito mesi fa dal magistrato filouribista Alejandro Ordoñez anche con il consenso del presidente, costretto poi al suo reintegro a seguito di una risoluzione della Commissione interamericana per i Diritti Umani, ha proclamato il suo appoggio allo stesso Juan Manuel Santos. In pratica, il presidente colombiano si è riconfermato al potere proprio perché in molti, pur lontanissimi ideologicamente dal suo pensiero politico, hanno pensato che buona parte dell’elite colombiana abbia sempre lucrato sulla guerra, per cui la prosecuzione del conflitto senza quartiere contro la guerriglia promessa da Zuluaga avrebbe garantito loro enormi guadagni: per questo gli elettori, votando per Santos, hanno deciso che un’eventuale pace avrebbe interrotto i traffici di una borghesia militarista convinta della guerra infinita come fattore di stabilità dal punto di vista sociale e politico. Il voto a Santos, ritenuto il male minore, ha permesso al presidente colombiano di recuperare gli oltre 500mila voti che, al termine dello spoglio del primo turno, lo separavano da Zuluaga, condannando così l’altoparlante di Uribe alla sconfitta.
Adesso i colombiani si aspettano delle aperture democratiche in chiave antiautoritaria, oltre al raggiungimento di un accordo di pace che sarebbe storico. Da parte sua, la sinistra avverte Santos: la sua vittoria è frutto anche del Frente Amplio por la Paz, quindi il suo mandato non potrà non essere che all’insegna delle questioni sociali. Speriamo che sia davvero così, ma permangono forti dubbi.
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