Latina

E in Uruguay Tabaré Vázquez va al ballottaggio con un ampio margine di vantaggio su Luis Lacalle Pou

Brasile: Dilma Rousseff si riconferma al Planalto

27 ottobre 2014
David Lifodi

L’esito delle elezioni presidenziali in Brasile e Uruguay non poteva essere dei migliori: in Brasile Dilma Rousseff ce l’ha fatta, anche se di un soffio (51,6% contro il 48,3% di Aécio Neves), mentre in Uruguay sarà ballottaggio tra Tabaré Vázquez (Frente Amplio) e Luis Lacalle Pou (Partido Nacional), con il candidato frenteamplista in netto vantaggio, con circa il 44% dei consensi rispetto al 34% ottenuti dal suo rivale blanco.

Il percorso di Dilma per rimanere al Planalto si era complicato a seguito dell’inaspettato ballottaggio fratricida a destra che a sorpresa aveva incoronato Aécio Neves su Marina Silva per ottenere il diritto a sfidare la Rousseff. Neves è un rappresentante di spicco dell’estabilishment conservatore brasiliano, uno che non si è mai fatto alcun problema, nel corso di tutta la sua campagna elettorale, a dire che il Brasile doveva uscire dall’asse integrazionista latinoamericano per associarsi agli Stati Uniti, come hanno sempre sostenuto il Partido da Social Democracia Brasileira (Psdb) e l’ex presidente tucano del paese Fernando Henrique Cardoso. Inoltre, c’era il forte timore che la sommatoria dei voti ottenuti da Neves e Marina Silva avrebbe finito per ritorcersi contro Dilma. E invece Marina, che aveva ottenuto consensi non solo dall’elettorato di destra, grazie al suo programma qualunquista, non è riuscita a convincere tutto i suoi simpatizzanti della necessità automatica di trasferire il voto da lei a Neves. Sebbene il suo discorso, volutamente antipolitico, le avesse fatto conquistare voti anche a sinistra, al momento del ballottaggio coloro che l’avevano appoggiata al primo turno solo per punire il Pt hanno scelto Dilma Rousseff, a partire, pare, da due mostri sacri della musica brasiliana come Caetano Veloso e Gilberto Gil. La classica competizione che ha animato la politica brasiliana, quella tra il Psdb (vittorioso nel 1994 e nel 1998) e il Pt (affermatosi nel 2002, 2006, 2010 e 2014), in realtà era decisiva anche per l’intera America Latina: se Neves avesse vinto, il Brasile si sarebbe allontanato dal Mercosur per aderire a quell’Alleanza del Pacifico a cui hanno dato impulso gli Stati Uniti con i paesi dell’America Latina loro alleati, dal Paraguay alla Colombia passando per il Perù. Nonostante le tante contraddizioni all’interno del Pt, a Dilma gli elettori hanno riconosciuto il raggiungimento di risultati importanti. Il programma Bolsa Familia ha permesso a milioni di brasiliani di uscire dalla povertà estrema, al pari del programma Mais Medicos, fortemente osteggiato dalla destra e che invece ha consentito ad un’ampia fascia sociale di persone di poter usufruire dell’assistenza sanitaria. In molti, a sinistra, consideravano la vittoria di Neves come una vera e propria sciagura per il paese. In una lettera aperta firmata da prestigiosi intellettuali si evidenziava come il voto per Dilma fosse decisivo per ricacciare indietro il neoliberismo, pur essendo consci che in questo secondo mandato, come del resto nel corso dei primi quattro anni al Planalto, difficilmente Dilma potrà davvero dare un’impronta socialista al paese, sia perché al Congresso la destra si è comunque rafforzata sia perché il Pt ha ormai abbandonato gli ideali che lo avevano contraddistinto dalla sua nascita negli anni ’80, nel segno della governabilità e della stabilità economica. La preferenza per Dilma, all’insegna del motto voto no Brasil para todos, não no Brasil para poucos, è stato un voto espresso anche per incoraggiare la presidenta a difendere il paese dagli avvoltoi di turno esterni (Fondo Monetario e Stati Uniti) ed interni (grandi imprese, bancada ruralista, evangelici fondamentalisti, latifondo mediatico e agrobusiness). A pochi giorni dal ballottaggio, la destra ha cercato apertamente la strada del golpe, magari soft, ma con l’intento di riportare indietro le lancette del paese. L’impero mediatico che fa capo a Globo ha utilizzato una forma di comunicazione già collaudata ai tempi in cui fu rovesciato Joao Goulart nel 1964, con titoli enormi che attribuivano a Dilma Rousseff la responsabilità della crescita dell’inflazione e della corruzione dilagante nel paese. Lo stesso sistema ha contribuito al rovesciamento del presidente Fernando Lugo in Paraguay e di Manuel Zelaya in Honduras grazie ad una campagna di stampa dei principali mezzi di comunicazione alleati della borghesia e del grande capitale. Per sventare tutto questo anche il Movimento Sem Terra, che pure non è mai stato tenero con Dilma Rousseff, ha scelto di appoggiarla, nella speranza che la riforma agraria, la riforma dell’istruzione e quella politica diventino realtà: Neves rappresentava quei settori del paese che avevano creato le condizioni per massacri come quello di Eldorado dos Carajás. Al tempo stesso, in chiave esclusivamente elettorale, il Partido Socialista Brasileiro (Psb), già diviso in occasione del primo turno (il coordinatore Carlos Siqueira si era dimesso dal ruolo di coordinatore della campagna per le presidenziali), quando non tutti i membri del partito erano convinti che appoggiare Marina Silva fosse la soluzione migliore, hanno continuato a dividersi anche in occasione del ballottaggio. Tutto ciò ha finito per indebolire non solo la Silva, ma anche Neves, che non è stato appoggiato ufficialmente da tutto il Psb. Se il successo di Dilma Rousseff è stato accolto con un sospiro di sollievo dalle sponde progressiste di tutto il continente, è anche vero che, per quanto possa essere difficile, Dilma Rousseff dovrà fare un governo davvero di centrosinistra e abbandonare alcune alleanza di orientamento conservatore,  in particolare quelle con le elites economiche, oltre che darsi da fare affinché la base del Pt torni ad essere quella dell’impegno sociale e civile e non infestata da tecnocrati. Difficile che il Pt torni a rappresentare un’alternativa di classe per la sinistra brasiliana, così come è evidente che, aldilà dei torni apocalittici utilizzati strumentalmente dalla stampa di destra, la riconferma di Dilma non rappresenti un’opzione propriamente di sinistra, ma come aveva scritto anche il quotidiano Brasil de Fato, votare Neves avrebbe significato portare alla rovina un paese che già al Congresso vanta un ampio schieramento conservatore che probabilmente riuscirà a paralizzare anche le più timide istanze progressiste del Pt. Il 5 ottobre scorso la coalizione di centrosinistra aveva già perso il governo di tre stati rispetto alla tornata precedente (da 18 a 15). Contemporaneamente, il Psdb aveva guadagnato terreno nel distretto federale di Brasilia, in quelli di Rio de Janeiro, San Paolo e Minas Gerais, che però alla fine è tornata petista dopo 12 anni di dominio tucano, compresa l’amministrazione dello stesso Aécio Neves.

In Uruguay nessuno immaginava che le presidenziali si risolvessero al primo turno, ma erano davvero in pochi a prevedere che al ballottaggio del prossimo 30 novembre Tabaré Vázquez si sarebbe presentato con un vantaggio di circa dieci punti su Luis Lacalle Pou, l’astro nascente del conservatorismo uruguayano. Ampiamente staccato Pedro Bordaberry, figlio del dittatore che portò il paese nel Plan Condor tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80: per lui e il Partido Colorado meno del 13% dei voti. Figlio dell’ex presidente conservatore Luis Alberto Lacalle, Lacalle Pou era indicato dai sondaggi come il Capriles venezuelano: un candidato presentabile, si autodefiniva “moderato”, in grado di strappare i consensi ad un Frente Amplio che schierava Tabaré Vázquez, già presidente del paese prima di Pepe Mujica e assai più moderato di quest’ultimo. Inoltre, si trattava anche di una sfida nel segno dell’età: il quarantunenne Lacalle Pou contro l’ultrasettantenne Tabaré Vázquez. Anche qui, la sfida si è giocata tra il modello integrazionista del Frente Amplio e quello “statunitense” dei blancos, decisi a portare il paese nell’Alleanza del Pacifico in caso di vittoria. La candidatura di Tabaré Vázquez era stata accolta con una certa diffidenza all’interno del Frente Amplio, dove la tendenza izquierdista della sua sfidante alle primarie, Constanza Moreira, era stata sconfitta nettamente, ma al tempo stesso in molti imputavano ai frentistas la stessa accusa rivolta al Pt brasiliano: quella di andare a braccetto con le multinazionali. E invece, anche in Uruguay, ha prevalso la volontà di difendere e consolidare le conquiste sociale raggiunte con il centrosinistra, per quanto Frente Amplio e Pt siano caratterizzati dalle stesse contraddizioni interne, riassumibili in una sola: quella di limitarsi a gestire un capitalismo dal volto più umano.  A meno di sorprese clamorose, Tabaré Vázquez il 30 novembre si confermerà alla guida del paese. Del resto era stato proprio per merito suo che in Uruguay era a tornata a vincere la sinistra: correva l’anno 2005 e il paese era amministrato, addirittura dal 1830, dall’alternanza tra blancos e colorados. In caso di vittoria, quella di Tabaré Vázquez sarà una presidenza rosa, ma anche in questo caso, molto meglio di un successo di Lacalle Pou che avrebbe riportato il paese indietro di anni,

In definitiva, il centrosinistra si conferma in un contesto tutt’altro che scontato: per adesso l’integrazionismo latinoamericano è salvo.

 

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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