Obama dichiara il Venezuela una minaccia per la sicurezza nazionale Usa
La dichiarazione di emergenza nazionale del presidente Usa Obama nei confronti del Venezuela rappresenta una chiara ingerenza nella politica del paese latinoamericano. Davvero il Venezuela bolivariano rappresenta una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti? Le argomentazioni di Obama sono stantie, a partire da quella relativa alla progressiva erosione dei diritti umani, passando per le restrizioni imposte da Maduro alla stampa e giungendo agli arresti arbitrari a seguito delle proteste antigovernative. La dichiarazione di emergenza nazionale del 9 marzo scorso è inquietante sotto più punti di vista. Contenuta nel capitolo 35 (titolo 50) dei Poteri economici di emergenza nazionale, la dichiarazione permette agli Stati Uniti di applicare sanzioni nei confronti di un paese con l’autorizzazione del Congresso e consente al presidente di attuare restrizioni di carattere commerciale (leggi embargo) ad uno stato considerato ostile agli Usa. Grazie alla dichiarazione di emergenza nazionale, gli Stati Uniti ne hanno approfittato per imporre l’embargo al Nicaragua di Daniel Ortega dal 1985 al 1990 e attaccare il governo haitiano di Jean-Bertrand Aristide tra il 1991 e il 1994 per consegnare il potere alla giunta militare di Raul Cédras. Al di fuori dell’America Latina, la dichiarazione di emergenza nazionale è stata il presupposto per invadere il Kuwait e attaccare l’Irak nel 1990, partecipare ai raid aerei nei Balcani e sferrare un’offensiva inutile quanto dannosa in Afghanistan per combattere i talebani, senza contare la presenza Usa in Siria, Bielorussia, Sudan ecc… . Date le premesse, non stupisce quindi la reazione del presidente Maduro, bollata ipocritamente dall’opinione pubblica come illiberale, di fronte al divieto d’ingresso negli Stati Uniti imposto a sette funzionari venezuelani. Maduro ha denunciato, una volta di più, i tentativi di golpe degli Stati Uniti, che avrebbero spalleggiato civili e membri dell’aviazione militare venezuelana. Il Venezuela è un paese sotto assedio e lo stato d’arresto per il generale della brigata di aviazione Oswaldo Hernández Sánchez, tuttora detenuto, rappresenta la giusta misura per un ufficiale dello stato che trama contro il suo stesso paese. Il piano dell’opposizione, tramite Oswaldo Hernández Sánchez, consisteva anche nel riattivare le guarimbas, le proteste di strada caratterizzate costantemente da episodi di violenza e spesso terminate con morti di simpatizzanti della rivoluzione bolivariana, senza però che nessuna organizzazione internazionale impegnata nella tutela dei diritti umani o paesi i cui governi si dichiarano difensori della democrazia abbiano mosso un dito. Ha ragione il vicepresidente boliviano Álvaro García Linera a sostenere che, se il Venezuela cade, a perdere è l’intera America Latina. A questo proposito, di fronte al ripudio della nuova aggressione Usa al Venezuela, l’Articulación Continental de los Movimientos Sociales ha chiamato ad un’ampia mobilitazione contro il paventato embargo che Obama pare intenzionato ad imporre al Venezuela, sostenuto dai paesi dell’Alba (Alianza Bolivariana por los Pueblos de Nuestra América), dall’Argentina, ma senza il sostegno del Brasile (rimasto colpevolmente in silenzio di fronte alle gravi dichiarazioni del presidente Usa). Eppure la difesa della democrazia venezuelana e la definizione da parte di Unasur (Unión de Naciones Suramericanas) della dichiarazione di emergenza nazionale di Obama come una “minaccia” dovrebbero far capire la gravità del momento. La VII Cumbre presidencial, prevista a Panama per il 10-11 aprile, sarà così caratterizzata dall’ambiguo quanto ipocrita disgelo tra Cuba e gli Stati Uniti, che mentre si riavvicinano all’isla rebelde tentano contemporaneamente di schiacciare il Venezuela. In quella sede andrebbe fatto notare a Obama che gli Stati Uniti difensori della democrazia appoggiarono l’allora dittatore venezuelano Marcos Pérez Jiménez, a Miraflores dal 1952 al 1958, oltre al tentato colpo di stato del 2002 che stava per portare al potere Pedro Carmona Estanga a seguito dell’effimera deposizione di Hugo Chávez. Attualmente, il motivo della vera e propria ossessione della Casa Bianca nei confronti del Venezuela risiede nelle cospicue riserve di idrocarburi che ha il paese latinoamericano e nell’asse stretta da Caracas con Russia e Cina, due pericolosi competitors, per gli Stati Uniti, in campo economico. Il poeta uruguayano Mario Benedetti sosteneva che el olvido está lleno de memoria: per questo la nascita di un Museo de la Historia del Intervencionismo Estadounidense a Caracas rappresenterebbe il segnale inequivocabile che l’America Latina è stanca delle ingerenze statunitensi. Cancellare la memoria storica, imporre una nuova colonizzazione culturale all’insegna del libero mercato, distruggere il passato e creare le premesse di un eterno presente in cui spadroneggiano Stati Uniti e multinazionali è da sempre l’intento dichiarato della Casa Bianca, che ha sulla coscienza i desaparecidos del Cono Sur degli anni ’70-’80 e quelli attuali, dove le forze imperiali si sono installate al potere, ad esempio in Honduras e Messico, o hanno governato tramite le transnazionali di turno. A questo proposito risulta opinabile il rapporto diffuso il 24 marzo da Amnesty International e intitolato “I volti dell’impunità. Un anno dopo le proteste le vittime attendono ancora giustizia”, che finisce per alimentare il clima di caccia alle streghe contro il Venezuela bolivariano. Se le proteste che sconvolsero il Venezuela tra febbraio e luglio 2014 causarono morti e feriti, è altrettanto innegabile che non si trattava di manifestazioni pacifiche dell’opposizione, ma di provocazioni organizzate al fine di gettare il paese nel caos. Gli imputati che si trovano in carcere meritano indubbiamente un giusto processo, ma far passare come sinceri democratici il sindaco di Caracas Antonio Ledezma o Leopoldo López (leader del partito di estrema destra Voluntad Popular), che nelle piazze hanno costantemente incitato a ribaltare Maduro e ad annichilire il processo bolivariano, è quanto meno discutibile. E ancora, incentrare i il rapporto quasi esclusivamente su torture, maltrattamenti e violazioni dei diritti umani ai danni di esponenti e simpatizzanti dell’opposizione, come si evince dal comunicato stampa, senza nemmeno citare la giusta battaglia dei venezuelani che hanno perso i loro familiari nelle guarimbas, non è indice di imparzialità. Ad esempio, tra le vittime delle guarimbas, ci fu anche Gisella Rubilar Figueroa, cilena, residente in Venezuela dal 2006 e figlia di un docente perseguitato dal regime pinochettista: la donna fu assassinata nel tentativo di rimuovere uno dei tanti blocchi stradali dell’opposizione. Ad aver esacerbato gli animi non è stato l’uso della forza da parte del governo (le forze dell’ordine avevano il compito di intervenire solo in casi estremi), ma la presenza di paramilitari e provocatori sul territorio venezuelano. La richiesta del Comité de Familiares de las Victímas de las Guarimbas y del Golpe Continuado per esigere giustizia è arrivata all’Onu, ma nessuno ne ha parlato.
Il rapporto di Amnesty International è condivisibile nella misura in cui “le persone dovrebbero poter manifestare senza paura di perdere la vita o essere illegalmente arrestate”: senza voler difendere ad ogni costo il processo bolivariano, non esente da critiche e contraddizioni sotto molti punti vista (a partire da ambiguità sulla questione indigena e da uno sviluppismo piuttosto discutibile), sarebbe auspicabile poterlo contestare e valutare per il suo reale percorso e non in maniera preconcetta.
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