Il risveglio del Guatemala
Su entrambi pesa l’accusa di corruzione e appropriazione indebita di oltre 130 milioni di dollari con l’aiuto delle mafie. È contro questo stato di cose che i guatemaltechi sono tornati a manifestare, non solo per esprimere la loro protesta nei confronti di Molina e Baldetti, ma soprattutto verso quel sistema mafioso che da decenni si è installato alla guida del paese. Forse è ancora presto per parlare di una primavera guatemalteca, ma i risultati di oltre trenta anni di economia neoliberista e la svendita delle risorse del paese alle multinazionali si cominciano a vedere, di pari passo con la rabbia della gente. La società civile scesa in piazza proviene in gran parte da differenti strati economici, accademici e culturali, non è legata a partiti politici (del tutto assenti dalle manifestazioni di questi giorni) ma è accomunata dall’indignazione per il ruolo crescente assunto dalle mafie nelle istituzioni del paese. Al tempo stesso, se l’ondata di proteste del mese di maggio ha avuto un ruolo specifico nello spingere alle dimissioni Roxana Baldetti, la strada da compiere per restituire dignità al Guatemala è ancora lunga. Per anni e anni il potere politico ha avuto buon gioco nel dichiararsi ostaggio delle mafie per poi farci affari nemmeno troppo sotto banco, nel segno della più totale impunità: per questo le manifestazioni di questi giorni sono state autoconvocate e spesso chi vi ha partecipato lo ha fatto per la prima volta in vita sua perché mai fino ad ora era sceso in strada a protestare. Inoltre, l’assenza dei partiti politici, per quanto notata da tutti, non ha sorpreso. Le due principali formazioni politiche del Guatemala, Libertad Democrática Renovada (Lider, di centrodestra), a cui appartiene anche il candidato presidenziale Manuel Baldizón, e Unidad Nacional de la Esperanza (Une, di centrosinistra) sono ampiamente infiltrate dal narcotraffico e dalle mafie e, di conseguenza, hanno una credibilità pari a zero, ma quattro dei cinque esponenti della Corte Suprema di Giustizia, quella che dovrà indagare su Roxana Baldetti per deciderne l’incriminazione, appartengono proprio ai due principali schieramenti del paese. In questo contesto hanno ripreso vigore le campagne per una riforma della legge elettorale e dei partiti affinché vengano banditi dal Congresso i politici legati a gruppi imprenditoriali legati a mafia e narcotraffico. Tuttavia, la protesta non deve rimanere ancorata esclusivamente al problema, peraltro endemico nelle istituzioni pubbliche guatemalteche, della corruzione. In Guatemala deve essere colta l’occasione per fare dei passi avanti: creare le condizioni per cacciare Molina dalla presidenza non basta, ma è necessario insistere per chiedere lo smantellamento degli apparati militari clandestini (ancora presenti) che giocarono un ruolo di primo piano nel conflitto armato interno. Farla finita con l’impunità e riprendere una storica bandiera di lotta, quella del giudizio per genocidio e delitti di lesa umanità, dovrà essere il passo successivo in un paese dove l’impunità l’ha sempre fatta da padrone, per la gioia dei torturatori di allora che ancora si nascondono tra le Forze armate e i gruppi paramilitari. La reale applicazione degli accordi di pace, così come la fine delle condizioni che hanno permesso il proliferare di sfruttamento ed esclusione sociale, sono i maggiori timori di una classe imprenditoriale che trema a seguito dello scandalo in cui sono coinvolti Molina e Baldetti. Dopo gli accordi di pace del 28 dicembre 1996 in Guatemala non si sono più registrate manifestazioni di massa come quelle recenti (il 16 maggio in ben dieci città la società civile è scesa in piazza), in cui la gente ha espresso tutto il rifiuto e la sfiducia contro l’attuale sistema politico, preoccupato solo di soddisfare gli interessi dei privati. Lo stesso candidato presidenziale Manuel Baldizón, con il suo slogan Le toca, come se già avesse l’assicurazione del trionfo elettorale, esprime un’arroganza che i guatemaltechi non sono più disposti a tollerare. Tuttavia è ancora presto per pronosticare uno scenario simile a quello honduregno, ad esempio, dove il partito Libertad y Refundación (Libre), pur dovendo lottare quotidianamente contro una repressione costante, raggruppa e si fa portavoce delle istanze dei movimenti sociali. Ad esempio, in molti hanno notato la scarsa presenza di indigeni e contadini alle manifestazioni del cosiddetto 16M, ed in effetti alle proteste ha partecipato, in buona parte, soltanto la classe media. Se dirigenti indigeni e contadini sono stati presenti ai cortei, la moltitudine rurale è stata assente soprattutto perché la corruzione della politica, pur essendo un fatto di per se stesso grave, è considerato un problema minore rispetto alle lotte contro il sistema economico neoliberista che attacca i territori delle comunità, inquina i fiumi e ne devia il corso per costruire miniere e centrali idroelettriche pretendendo di scavalcare la sovranità territoriale del Guatemala al fine di impossessarsi dei beni comuni del paese con il beneplacito delle istituzioni. Inoltre, ha giocato un ruolo di primo piano la storica esclusione delle comunità indigene dalle più importanti decisioni del paese, vittime di un razzismo istituzionale perpetrato scientificamente e che ha portato a parlare di due Guatemala, quello ufficiale e quello profondo. Non che indigeni e campesinado non si siano mossi, però ritengono altre le priorità per cui è necessario innalzare il livello delle lotte sociali, ad esempio nei casi in cui le comunità sono state minacciate dall’esercito, responsabile di morti e feriti, oltre che di una vera e propria occupazione militare dei territori, come accaduto nei casi di Totonicapán, Santa Cruz Barillas o nelle vertenze contro Endesa/Enel. Al contrario, si è risvegliata la mobilitazione sociale nelle università, a partire da quella di San Carlos, nonostante i vertici dell’ateneo siano il riflesso delle altre istituzioni del paese. Negli anni Ottanta l’università di San Carlos era tristemente nota per le irruzioni dei patrulleros che si portavano via gli studenti di sinistra. A destra, invece, le dimissioni di Roxana Baldetti possono essere interpretate in più modi. D certo la vicepresidente è stata abbandonata anche dagli Stati Uniti, che l’hanno scaricata giudicandola impresentabile, al pari della nuova borghesia rampante del paese, la quale ha deciso di non sostenerla per rubare a sua volta terreno alla classe imprenditoriale tradizionale di cui Baldetti è esponente. Al tempo stesso, la vicepresidente è stata scelta come un facile capro espiatorio secondo il detto gattopardesco “tutto cambi affinché niente cambi”. A questo proposito, l’ambasciata Usa in Guatemala si è guardata bene, almeno per ora, dall’attaccare Pérez Molina, generale che ha fatto carriera nell’esercito per la sua lotta antiguerrigliera e per le continue violazioni dei diritti umani. E ancora oggi, nonostante sia nota la creazione, ad opera di Molina, di un gruppo clandestino e informale a suo sostegno (denominato El Sindicato) ed i suoi legami con narcotraffico, crimine organizzato e attività di contrabbando, gli Stati Uniti si sono guardati bene dal fare pressione su di lui per chiederne le dimissioni, nella speranza che la sola rinuncia della Baldetti possa servire per disinnescare la protesta.
Ad oggi non ci sono gruppi di sinistra in grado di porsi alla testa della protesta (anzi, preoccupa la linea settaria assunta dall’ex guerriglia della Urng e del suo braccio politico, il Maiz), ma se la moltitudine degli indignados guatemaltechi facesse rete, forse ci sarebbe l’opportunità di una nuova era anche per uno dei paesi più martoriati del Centroamerica.
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