Latina

Ma restano molti dubbi sulle reali intenzioni del presidente Juan Manuel Santos

Colombia: tregua bilaterale tra guerriglia ed esercito

I negoziati avranno successo solo se la pace sarà accompagnata da equità e giustizia sociale
20 luglio 2015
David Lifodi

internet

In Colombia si riparla di pace. Non che dall’inizio dei colloqui tra governo e guerriglia, iniziati nel 2012, il tema fosse passato in secondo piano, tutt’altro, ma dalle parti di Palacio Nariño hanno fatto tutto il possibile per sabotare un processo di pace voluto fortemente dalle organizzazioni rivoluzionarie (Farc ed Eln) e dalla società civile, ma osteggiato da un estabilishment che dal prosieguo della guerra continuerebbe a trarre notevoli vantaggi, a partire dal punto di vista economico.

È per questo che la pace, nonostante sia ormai un compromiso ineludible per la società civile colombiana, dal punto di vista governativo deve sempre sembrare come una concessione dall’alto. Non si capisce cosa devono ancora fare le Farc, più che esprimere il loro desiderio di pace con un presidente e un governo che pure hanno molteplici scheletri nell’armadio, ma, al tempo stesso sono comunque stati votati dalla sinistra nella speranza che i negoziati con la guerriglia potessero condurre alla fine delle ostilità. Al tempo stesso, lasciano perplessi le parole del mediatore governativo Humberto De La Calle, il quale negli ultimi giorni ha assicurato che i colombiani stanno perdendo la pazienza per via dei continui paletti imposti dalla guerriglia. È evidente che la pace non può essere un assegno in bianco delle Farc al governo e del resto, dopo che negli anni Ottanta ad una situazione simile seguì il massacro dei militanti di Unión Patriotica, come fidarsi delle istituzioni? Da oggi, 20 luglio, ha garantito De La Calle, saranno sospese le operazioni militari di esercito e guerriglia: questo potrebbe essere un primo passo positivo poiché non era mai accaduto che le azioni di guerra fossero sospese durante i negoziati. Detto questo, sono molti gli aspetti ambigui che continuano ad aleggiare sulla presidenza Santos. In primo luogo, il presidente non ha mai abbandonato la sua idea di stroncare sul nascere qualsiasi protesta proveniente dai settori contadini. La questione agraria in Colombia assume un rilievo di primaria importanza, ma nonostante tutto i colloqui tra governo e campesinos per il miglioramento delle loro condizioni di vita si sono rivelati una farsa. Da parte di Santos non c’è alcuna volontà politica di risolvere le condizioni di estrema povertà in cui vive il campesinado, anzi, nei confronti dei promotori degli enormi scioperi del 2013 e del 2014 si è verificata una vera e propria persecuzione di Stato: molti di loro sono in carcere e non è mai stata promossa alcuna indagine per scoprire i mandanti dei sicari che hanno ucciso alcuni dei leader sociali più in vista. È chiaro che se non si risolve la questione contadina difficilmente si potrà arrivare ad una pace senza alcuna riforma sociale, all’insegna del neoliberismo e per giunta caratterizzata dalla volontà dello Stato di liquidare la resistenza contadina rivoluzionaria. Si tratta di avere la volontà politica, sostengono le Farc, che scommettono sulla pace come mai avevano fatto prima d’ora, ma il negoziato non può che essere all’insegna di un aspetto ineludibile, quello di debellare il paramilitarismo. Ancora oggi, in molti dipartimenti del paese, i paras fanno il bello e il cattivo tempo e vengono utilizzati per le operazioni sporche, ad esempio l’eliminazione dei campesinos. Quando lo Stato non si vuol sporcare le mani in prima persona intervengono i gruppi paramilitari, ampiamente tollerati dall’estabilishment. Al contrario, sostengono le Farc e i movimenti sociali, la pace deve andare di pari passo con la giustizia sociale, il rafforzamento della democrazia e il rispetto dei diritti umani. Tutta la popolazione dovrebbe beneficiare di un reale processo di pace che non sia ad esclusivo vantaggio dei soliti noti. A questo proposito, se Santos crede di proseguire nel negoziato con una guerriglia militarmente sconfitta e alla quale bastano poche e generiche promesse di pace, ha fatto male i conti. Le condizioni per una pace caratterizzata dall’equità sociale sta nell’abbattere i privilegi che garantiscono l’espropriazione della terra a multinazionali e grandi proprietari terrieri, nella difesa della sovranità territoriale dalle transnazionali che intendono subordinare la politica economica del paese ai loro interessi (non a caso la Colombia viene definita locomotora minera), nel garantire che i territori di comunità indigene e contadine non siano più concessi ad imprese senza scrupoli che, insieme al fenomeno del narcoparamilitarismo, finora sono riuscite a fare terra bruciata. E ancora, sul processo di pace colombiano pesa il caso dei falsos judiciales. All’epoca in cui Juan Manuel Santos era delfino e ministro dell’Interno del presidente Uribe, scoppiò il caso dei falsos postivos, giovani delle periferie uccisi dai militari in operazioni di limpieza social ordinate dal governo e poi fatti passare come guerriglieri per dimostrare l’efficienza dell’esecutivo nei confronti della lotta armata. Al giorno d’oggi, sempre con la responsabilità di Santos, il caso si ripete, ma con un copione leggermente diverso. Stavolta i leaders sociali, gli esponenti dell’opposizione e i rappresentanti di primo piano dei movimenti sociali sono definiti come insurgentes o, più direttamente, “terroristi”. I dati delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani dicono che, solo tra il 2009 e il 2012, sono state catturate dalla polizia almeno 8600 persone sulle quali pesa l’accusa di sovversione. In realtà il 75% degli arrestati è stato poi liberato perché non sussisteva il fatto, ma la criminalizzazione dei movimenti sociali è tale che numerosi studenti e contadini sono stati vittime di questo modus operandi. Anche in questo caso, lo scopo del governo è quello di mostrare che la lotta contro la guerriglia produce i suoi effetti. Nonostante tutto, i negoziati finora hanno registrato dei progressi in merito ai temi della riforma agraria, sul reinserimento in politica per gli ex guerriglieri e, ancora, sullo sminamento dei territori di guerra.

Restano, tuttavia, numerose ombre sulla presidenza di Santos. Da un lato la sinistra si è messa fortemente in gioco scegliendo di votarlo per spingere ancora di più sul processo di pace e togliergli qualsiasi possibilità o appiglio per tirarsi indietro, ma dall’altro, nonostante i rapporti con Uribe siano ormai rovinati, pesa anche la simpatia dell’elite per l’ex presidente del paese, che ha mantenuto stretti rapporti con i paramilitari ed è ferocemente contrario a qualsiasi accordo di pace. In mezzo sta una società civile stanca di guerra e che ogni giorno continua a provare sulla sua pelle l’esclusione sociale, il furto delle terre e la repressione di paramilitari e multinazionali con il beneplacito dello Stato, senza contare che la Colombia fa parte di quell’Alleanza del Pacifico sponsorizzata e foraggiata dagli Stati Uniti in chiave anti-bolivariana.

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it.
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