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Inizialmente odiato da Washington e dall’oligarchia locale, Evo si è trasformato in partner affidabile per il grande capitale

Bolivia: il 21 febbraio referendum sulla nuova candidatura di Morales alla presidenza per il 2020

La vittoria di Morales è auspicabile, ma il presidente deve cambiare rotta
6 gennaio 2016
David Lifodi

internet In Bolivia la campagna elettorale per il referendum del 21 febbraio, che sancirà molto probabilmente la possibilità per Evo Morales di ricandidarsi per un nuovo mandato presidenziale nel 2020, è già cominciata. Evo finora ha già battuto il record di permanenza a Palacio Quemado, che spettava ad Andrés de Santa Cruz (1829-1839), ma erano altri tempi.

Morales fu eletto per la prima volta nel 2005 con il 54% dei voti, per poi accrescere i suoi consensi nel 2009 (64%) e confermarsi nel 2014 (62% delle preferenze). “Evo è imprescindibile per proseguire el proceso de cambio”, un leader come Evo “sorge ogni due secoli, come Túpac Katari”, dicono in molti. È evidente che c’è da augurarsi un nuovo successo di Morales in occasione del referendum del 21 febbraio, pena il ritorno al potere di una delle peggiori oligarchie del continente, ma è necessario anche analizzare in maniera critica l’era del presidente boliviano, che inizialmente era visto come il diavolo a Washington e dalle elites dell’Oriente boliviano (vedi i numerosi tentativi di golpe), ma che adesso piace addirittura alla finanza internazionale. Forte del suo vicepresidente ed ex guerrigliero Alvaro García Linera e dei suoi ministri David Choquehuanca e Luis Arce Catacora, quest’ultimo artefice del cosiddetto miracolo economico, Morales può godere dei due terzi del Congresso a suo favore e, nonostante alcuni casi di corruzione di dirigenti indigeni che hanno un po’ offuscato l’immagine dei “movimenti sociali al potere”, i sondaggi indicano come probabile la sua vittoria al referendum. Eppure, non si può fare a meno di notare come l’impostazione politica di Evo Morales e del suo Movimiento al Socialismo (Mas) abbia avuto una mutazione. Lo scorso ottobre, il presidente ha partecipato ad un incontro organizzato dal Financial Times a New York con le principali imprese minerarie, le multinazionali del petrolio e le banche private. Morales ha cercato di attrarre nuovi investimenti stranieri, un evento impensabile durante i suoi primi anni di governo, al pari di un accordo con imprese cinesi per la costruzione di ferrovie verso il Cile a beneficio principalmente delle transnazionali petrolifere e minerarie. E ancora, fa parte della presidenziale “Agenda 2025” il piano per costruire una nuova centrale idroelettrica, implementare l’estrazione mineraria e l’attività metallurgica, investire sui corridoi bioceanici nell’ambito del primo punto dell’Agenda, denominato “Patria Grande e Industrial en la Era Satelital”. Ma la Bolivia non doveva recuperare la sovranità nazionale invece di dipendere dalle esportazioni?” si chiedono in molti, evidenziando come le organizzazioni popolari alla sinistra del Mas e di Morales siano bollate troppo frettolosamente come oppositori di destra, con buona pace dello stato plurinazionale, del buen vivir delle comunità indigene e della democrazia partecipativa e comunitaria. Il mandar obedeciendo di ispirazione zapatista a cui si era ispirato il Mas rischia di mutare dal comandare obbedendo al popolo ad una cieca obbedienza nei confronti delle multinazionali e di quell’oligarchia latifondista che aveva osteggiato fortemente Evo, con il sostegno di Washington, durante i suoi primi anni a Palacio Quemado. Ad esempio Repsol, la multinazionale spagnola che aveva progettato l’esportazione del gas dalla Bolivia agli Stati Uniti e per questo può essere annoverata tra le principali responsabili della guerra del gas scatenatasi nel 2003, ha accompagnato Morales a promuovere la nuova immagine della Bolivia all’evento organizzato dal Financial Times a New York. Al tempo stesso, evidenzia un altro intellettuale latinoamericano di grande levatura quale Emir Sader, è grazie a Morales che la Bolivia ha vissuto la sua più grande trasformazione economica, sociale e politica della sua storia, e anche questo è un dato innegabile. Da quando il compañero presidente è alla guida del paese, l’estrema povertà si è ridotta della metà, la mortalità materna è sensibilmente diminuita, l’analfabetismo è stato debellato e le condizioni di buona parte dei boliviani sono migliorate grazie all’accesso all’acqua potabile, all’energia elettrica e ad internet. Tuttavia, è altrettanto lecito chiedersi come mai l’impero a stelle e strisce si è accanito contro il Venezuela bolivariano, ha sponsorizzato la campagna elettorale di Mauricio Macri in Argentina e cercato di promuovere l’impeachment contro una Dilma Rousseff già fin troppo vicina al grande capitale, ma non ha più attaccato direttamente la Bolivia come fece quando appoggiò il progetto separatista dell’Oriente boliviano propugnato, tra gli altri, dal terrateniente Branko Marinkovic.

In definitiva, è senz’altro auspicabile che Morales vinca il referendum e possa ricandidarsi per un nuovo mandato presidenziale dal 2020 al 2025, ma al tempo stesso dovrebbe riprendere, insieme al Mas, un percorso condiviso insieme ai movimenti sociali affinché la Bolivia non sia più terra di conquista delle imprese straniere. Gli ultimi passi di Morales, invece, sembrano essere indirizzati verso politiche sviluppiste in grado di mantenere l’ordine sociale e, al tempo stesso, compiacere il grande capitale ed è questo che preoccupa, anche nel caso di un ampio (e auspicabile) successo nel referendum del 21 febbraio. 

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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