Colombia: slitta la firma degli accordi di pace
In effetti, mettere fine a 50 anni di guerra non è un compito semplice: entrambi i contendenti hanno ritenuto utile prendersi altro tempo piuttosto che ratificare un accordo poco chiaro o comunque non troppo condiviso sia dalla guerriglia sia dal governo colombiano, tuttavia, evidenzia Huber Ballesteros, uno dei prigionieri politici storici della democratura di Palacio Nariño, Juan Manuel Santos vuole la pace, ma solo per le elites e l’oligarchia del paese. Militante di Unión Patriótica, il partito che vide sterminati quasi tutti i suoi quadri alla metà degli anni Ottanta, quando già allora sembrava che le Farc potessero partecipare alla vita politica legalmente per poi essere invece ingannate dal regime, Huber Ballesteros, instancabile lottatore sociale, si trova in prigione dall’agosto 2013 a causa della falsa testimonianza di un ex guerrigliero divenuto improvvisamente informatore di primo piano dell’esercito. Vittima di una vera e propria montatura giudiziaria risalente allo sciopero generale del 2013, di cui era stato uno dei principali artefici, Huber Ballesteros è convinto che, anche nel caso in cui arrivi la firma degli accordi di pace, la popolazione colombiana dovrà prepararsi ad una lunga resistenza. In un’intervista rilasciata ad Adital, Ballesteros intravede una luce di speranza a proposito della possibile amnistia che verrebbe concessa ai leader dei movimenti sociali (del resto lui non ha mai fatto uso di armi e si trova in carcere solo per via della sua militanza rivoluzionaria), ma ritiene che se non sarà convocata un’Assemblea Costituente davvero intenzionata a cambiare il modello politico ed economico attualmente vigente nel paese, difficilmente dagli accordi di pace scaturirà un risultato concreto.
Da un lato, i settori più pragmatici delle elites colombiane riconoscono l’inutilità di una guerra assai costosa dal punto di vista militare che non è riuscita a debellare la guerriglia, la quale, dal suo punto di vista, è consapevole di non poter più sconfiggere militarmente lo stato. Perseguire la via politica, come auspicano le Farc, e combattere in sede istituzionale l’esclusione sociale, il neoliberismo e la svendita dello stato alle multinazionali, non sarà semplice, così come l’oligarchia è cosciente di dover lottare per mantenere i propri privilegi: per questo, da entrambe le parti, si cerca di ottenere il massimo dagli accordi di pace e, anche in questo senso, si comprende il motivo per cui c’è stato un rallentamento nella firma degli accordi. In particolare, ciò che suscita maggiori preoccupazioni non solo tra le fila della guerriglia, ma anche tra la società civile, riguarda l’eventuale rispetto degli accordi di pace (e a questo proposito i precedenti dello stato colombiano non sono dei più incoraggianti), quali sono le garanzie per la sicurezza degli ex guerriglieri e quale sarà la posizione di Palacio Nariño verso le transnazionali, le cui responsabilità nel conflitto armato sono evidenti, al pari dei legami di quest’ultime con i gruppi paramilitari, i quali continuano ad agire del tutto indisturbati. Solo per fare un esempio recente, il report di Pax Holanda del 2014, El lado oscuro del carbón, denunciava l’ondata di violenza scatenata nel dipartimento del Cesar dalle imprese minerarie Drummond e Prodeco con il sostegno attivo dei paras. Del resto, la storia della Colombia è costellata da episodi del genere: dagli attuali sgomberi forzati di intere popolazioni, con l’avvallo dello stato, per costruire centrali idroelettriche e nuove miniere a cielo aperto, alla violenza scatenata dalla famigerata United Fruit Company (oggi Chiquita Brands) negli anni Venti del secolo scorso, che provocò massacri di bananeros con la complicità dell’esercito e degli immancabili squadroni paramilitari.
Le transnazionali, evidenzia il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos, in Colombia si sono rese responsabili, a più riprese, dell’appropriazione indebita della terra a scapito di intere comunità. Non è un caso che oggi la Colombia sia denominata locomotora minera e, come fa notare la sociologa argentina Maristella Svampa, nel paese andino la nuova fase del neoliberismo è stata caratterizzata, più che dal Washington Consensus, dal Consenso de los Commodities. Non è un caso che il recente Paro civico del 17 marzo sia maturato in un contesto di estrema violenza a causa delle scorribande delle milizie paramilitari santouribistas, le quali hanno provocato la morte del leader comunitario James Balanta, assassinato da alcuni copi di pistola nel nord del Cauca da un pistolero che poi è fuggito in motocicletta. Al Paro civico hanno partecipato non solo i movimenti sociali storici (contadini, sindacati, indigeni e studenti), ma anche nuove organizzazioni popolari, tra cui donne, ambientalisti, attivisti Lgbti e per i diritti umani, tutti accomunati dal rifiuto della svendita del paese, che avviene tramite il trattato di libero commercio e la privatizzazione dei beni comuni a scapito di riforme che invece sarebbero urgenti, a partire da quelle della giustizia e del lavoro. L’omicidio di Balanta è stato l’ultimo di una serie di delitti compiuti contro leader delle comunità nere e afrodiscendenti e di Marcha Patriótica.
Forse la pace non è mai stata così vicina, ma perché termini il conflitto sociale non basterà dichiarare solo un formale cessate il fuoco, ma impegnarsi davvero affinché a governare il paese e ad indirizzarne la sua politica economica non siano sempre i soliti per colpa dei quali in Colombia si continua ad uccidere e a morire.
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