Bolivia: riflessioni sulla sconfitta di Evo Morales nel referendum del 21F
Si deve ripartire dal basso e dai movimenti sociali, negli ultimi anni rimasti troppo prigionieri delle logiche partitiche e della cooptazione governativa, sostengono in molti. Di più: qualcuno azzarda che il candidato per le presidenziali del 2019 potrebbe non essere Evo Morales, ma David Choquehuanca, uomo di Evo, ma soprattutto vicino ai movimenti sociali. Tuttavia, addossare la colpa della sconfitta referendaria esclusivamente all’ingerenza statunitense, come fanno i vertici del Mas, non aiuta ad un percorso di autocritica in vista delle sfide future. Solo per fare un esempio, il referendum è stato proposto da Palacio Quemado e non imposto da Washington. Se è vero che gli Stati Uniti aspettavano a gloria una battuta d’arresto di Morales, al pari dei suoi oppositori interni (peraltro sempre i soliti e con lo stesso armamentario comunicativo), all’interno del Mas non è mai stata condotta una seria autocritica sul ruolo giocato dal capitalismo e dal potere nella cooptazione delle organizzazioni popolari. Aldilà dell’esito negativo del referendum, ci sono buone probabilità che le presidenziali del 2019 arridano di nuovo al Mas, indipendentemente dal candidato, a patto che i movimenti sociali non siano imbrigliati e che il governo mantenga la sua indipendenza rispetto alle tentazioni provenienti dal capitale, senza cadere in politiche assistenzialiste o, peggio ancora, clientelari, come accaduto di recente. L’originalità dell’esperienza boliviana e del suo processo di cambiamento, almeno nelle fasi iniziali, consisteva nel sostenere che il vero governo del paese non stava all’interno delle strutture statali, ma nelle forme di autogoverno comunitario, le cosiddette comunas, del territorio, a partire da quella di El Alto, come scrisse anni fa Raúl Zibechi nel suo Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo stato boliviano. Al contrario, la concessione di sedi e altri benefici ad organizzazioni popolari e sindacati fin troppo accondiscendenti verso il Mas, affinché fossero loro a creare le premesse per un cambiamento sociale, ha finito per distogliere almeno una parte dei movimenti sociali dai loro veri obiettivi. A peggiorare le cose, in questo contesto, sono state le accuse e gli insulti, secondo modalità purtroppo già messe in pratica dell’ecuadoriano Rafael Correa, di infantilismo, estremismo e collusione con la destra e con la controrivoluzione pronunciate dalle più alte cariche dello stato, a partire dal vicepresidente Àlvaro García Linera, come accaduto, ad esempio, nel caso del Tipnis, quando da Palacio Quemado si è tentata anche la strada di dividere le comunità indigene. Anche sulla questione dell’estrattivismo minerario il governo si è chiuso a riccio, tacciando qualsiasi voce critica come funzionale alle trame di Washington, quando invece è evidente che questo tipo di sviluppo economico non è ambientalmente sostenibile. A questo proposito, la mancata consultazione delle comunità ha provocato più di una crepa nel rapporto tra quest’ultime ed un governo che continua ad autodefinirsi “popolare”, ma, aldilà della retorica antimperialista, spesso ha finito per scendere a patti con le multinazionali.
Se Evo Morales e Àlvaro García Linera, ma anche Rafael Correa e altri presidenti di centrosinistra sceglieranno la strada ecologista, che significa, al tempo stesso, farla finita con l’estrazione mineraria, la costruzione di centrali idroelettriche e l’edificazione di grandi opere a scapito delle comunità, ci sono buone possibilità che il ciclo progressista possa riprendere il suo cammino, ma se, su questo versante, i palazzi del potere continueranno ad attaccare pesantemente comunità indigene e i movimenti per la difesa dei beni comuni, la ola izquierdista rischia seriamente di giungere al capolinea.
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