Latina

In vista delle presidenziali 2018 tutti cercano di utilizzare The Donald per i loro interessi

Messico: dietro alle minacce di Trump è guerra tra le elites messicane per il controllo del potere

A pagare, come sempre, saranno le fasce sociali più deboli di Messico e Stati Uniti
2 febbraio 2017
David Lifodi

internet

Dietro alle minacce di Trump verso il Messico, a partire dalla costruzione del muro, non sta solo l’ego smisurato di uomo solo al comando e di quella parte di America intrisa di razzismo, fascismo e intolleranza che lo sostiene, ma anche una resa dei conti all’interno delle classi dominanti messicane che cercano di utilizzare The Donald per i loro scopi. A farne le spese, non solo i migranti, costretti già ad affrontare prove durissime per raggiungere il sogno americano anche in epoca democratica, a partire dalle pattuglie xenofobe che presidiano il confine dal lato statunitense della frontiera, ma un intero paese, il Messico, le cui fasce sociali più deboli hanno tutto da perdere in questa strategia di riposizionamento della politica messicana di fronte al nuovo presidente Usa.

Trump arriva al potere in un momento in cui il Messico è al collasso, a livello politico ed economico. Per questo il magnate divenuto presidente ha scelto di attaccare Peña Nieto, sapendo che la sua popolarità è al minimo, ma facendogli un favore, sotto un certo punto di vista.  Di certo il presidente messicano non è conosciuto per la sua benevolenza verso le comunità indigene, così come è evidente che né lui né i suoi predecessori abbiano mosso un dito per aiutare le fasce sociali più povere del paese o si siano adoperate per tutelare i migranti messicani o centroamericani che attraversano il Messico per raggiungere gli Stati Uniti. Tuttavia PeñaNieto, ma anche Vicente Fox, non hanno esitato un attimo ad appropriarsi dell’hashtag antitrumpiano per eccellenza #fuckingwall e a tacciare di razzismo The Donald. Questa paradossale situazione è valsa ad entrambi una leggera risalita di popolarità tra i messicani. In ogni caso, potrebbe essersi trattato dell’ultima mossa di Peña Nieto per difendere la sua reputazione. In Messico nel 2018 si vota per le presidenziali e alle porte di Los Pinos già bussano preoccupanti cavalli di ritorno, da Carlos Salinas de Gortari (a cui si deve l’ingresso del Messico in quel Nafta che adesso Trump vuole stracciare), che gode dell’endorsement di uno degli uomini più ricchi del pianeta, Carlos Slim, allo stesso Zedillo. Lo scorso 21 dicembre, mentre Peña Nieto parlava con deputati e senatori per ragionare su come difendersi dalle bordate di Trump, Carlos Slim si incontrava con il futuro presidente statunitense e dichiarava ai giornalisti tutta la sua stima per The Donald. Cercando di cavalcare il montante sentimento anti-Trump dei messicani, Peña Nieto si sta dedicando a sostenere il cugino Alfredo del Mazo Maza come governatore priista alla guida dello stato di México, con buona pace degli indocumentados utilizzati strumentalmente solo per restare a galla in politica. È evidente che Peña Nieto è tutt’altro che interessato ai diritti dei migranti messicani, ma non lo è così tanto neppure Andrés Manuel López Obrador, conosciuto popolarmente come Amlo e anch’esso in corsa per Los Pinos, che da una posizione di centrosinistra ha finito per legarsi fin troppo all’imprenditoria messicana, come dimostrano i suoi rapporti assai stretti con EstebanBarragán, già segretario di governo all’epoca della presidenza Zedillo.

Altro aspetto del conflitto (finora fortunatamente solo verbale) tra Messico e Stati Uniti, riguarda la guerra contro la droga. Come ha evidenziato Noam Chosmky, nessuno si stupirebbe se uno dei prossimi atti d’accusa di Trump verso Los Pinos fosse che gli Stati Uniti siano uno dei paesi dove risiede il più alto numero di consumatori di droga per colpa del Messico. Del resto, è un dato di fatto che l’80% della droga consumata negli Usa viene prodotta ed esportata negli Stati Uniti proprio dal Messico e che la guerra al narcotraffico promossa dal predecessore di Peña Nieto, Felipe Calderón, si è risolta in un disastro totale. In poche parole, il Messico rappresenta il nemico perfetto per un presidente, Donald Trump, che ama vincere facile, ma, soprattutto, che è a conoscenza della dipendenza strategica del paese verso gli Stati Uniti, in termine di sicurezza, investimenti e commercio. Proprio riguardo a quest’ultimo punto, non si può non ricordare come il Messico rappresenti il socio latinoamericano più importante degli Usa.

Se queste sono le tematiche maggiormente dibattute da los de arriba di entrambi i paesi, per i los de abajo Trump, Peña Nieto e il suo successore rappresentano senz’altro una sciagura, al pari della precedente amministrazione Obama. Come non ricordare, a proposito del muro, che proprio durante la presidenza Obama sono stati deportati centinaia di migliaia di indocumentados e che la progettazione di una barriera al confine tra i due paesi risale almeno al 1994, sotto la presidenza di Bill Clinton, nell’ambito dell’Operación Guardián, per tenere sotto controllo il confine tra Tijuana e San Diego?

A livello di politica interna, attualmente, il Messico è scosso dalle proteste per il repentino aumento del prezzo dei combustibili, dell’energia elettrica e dell’acqua e dal gasolinazo, di cui è principale responsabile la presidenza di Peña Nieto. Quest’ultimo, di fronte alla minaccia di Trump di cancellare il Nafta, l’accordo di libero commercio che peraltro aveva contribuito non poco ad impoverire milioni di messicani, non ha saputo far altro che ribadirne i suoi lati positivi, senza rendersi conto che è stato proprio grazie a questo trattato che il modello neoliberista si è propagato facilmente in tutto il paese, dalle maquiladoras all’estrazione mineraria indiscriminata compiuta dalle multinazionali.

Di fronte agli attacchi di Trump il Messico non può difendere il trattato di libero commercio o limitarsi a rimanere un paese dipendente e semicoloniale, ma, al contrario, deve unirsi, insieme ai los de abajo statunitensi, per cacciare Trump, Peña Nieto e le elites che aspirano a prendere il posto del presidente messicano. Solo così il Messico potrà intraprendere un cammino verso un futuro realmente sovrano, democratico e senza sfruttamento né oppressione di alcun tipo.

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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