Latina

Il paese rischia di trasformarsi nell’Irak dell’America latina

Venezuela: crisi infinita

E l’opinione pubblica continua a sostenere un’opposizione antichavista tutt’altro che democratica
3 maggio 2017
David Lifodi

internet

“Distruggere l’ordine democratico e cancellare qualsiasi forma di libertà”: queste parole d’ordine, volutamente attribuite al governo bolivariano del Venezuela, rappresentano in realtà gli obiettivi della destra antichavista. Quella che in Venezuela viene definita come “opposizione democratica” vuole un bagno di sangue, ma a livello comunicativo passa tutt’altro tipo di informazione. Addirittura, pochi giorni fa, in occasione delle celebrazioni del 1 maggio, Maduro è stato accusato di aver inviato l’esercito contro la gente scesa in piazza per contestarlo. In realtà, è evidente che il governo bolivariano non è certo contrario alla festa del lavoro, ma non aveva potuto far altro che schierare i militari contro quella che sempre più va configurandosi come una Baia dei Porci in salsa venezuelana.

Da un lato la media e alta borghesia dei quartieri bene di Caracas, infiltrata da elementi destabilizzanti delle destre latinoamericane, dall’altro la rivoluzione bolivariana che, per quanto assediata, cerca di difendere il paese ed evitare che vada in mano a traditori dello stesso popolo venezuelano con il sostegno degli Stati uniti e dei governi più reazionari del continente, dal Brasile all’Argentina passando per Perù, Paraguay e Colombia. Il sociologo e politologo argentino Atilio Borón c’è andato giù duro: “L’opposizione democratica è peggiore del fascismo”, ricordando che il Venezuela rischia di trasformarsi in una colonia statunitense. In effetti, la ripresa delle violenze, segnata nuovamente dalle guarimbas, è coinciso con la nomina di Liliana Ayalde come vice capo civile del Comando Sur, seconda di grado solo all’ammiraglio Kurt Tidd. Nel curriculum della donna figurano i colpi di stato in Paraguay e Brasile quando è stata ambasciatrice nei due paesi. Non è il solo aspetto che fa capire quanto ardua sia la strada che dovrà intraprendere la rivoluzione bolivariana per resistere. “Crisi democratica”, “crisi umanitaria” e “regime” sono le parole ripetute dai mezzi di comunicazione privati venezuelani e riprese, senza alcun controllo delle fonti, da quelli europei, i quali non hanno mai evidenziato come nel paese latinoamericano venga applicata ogni giorno la tattica destabilizzatrice ideata da Eugene Sharp, uomo assai vicino alla Cia e teorico delle rivoluzioni arancioni nell’Europa dell’est. Su ventinove milioni di venezuelani, a commettere ogni giorno violenze di ogni tipo sono settori dell’opposizione che prima occupano scuole, ospedali, mezzi pubblici e poi si lamentano quando il governo cerca di ristabilire l’ordine costituito.

Finora, il chavismo e la rivoluzione bolivariana hanno dovuto lottare contro molteplici oppositori, dalla destra di Primero Justicia, il cui leader Henrique Capriles ogni giorno invita a rovesciare Maduro con ogni mezzo, ai fascisti di Voluntad Popular, fino alle ingerenze esterne di Mauricio Macri, Michel Temer e  Stati uniti. In questo contesto, Maduro non è riuscito a mantenere la necessaria coesione all’interno della rivoluzione bolivariana, ha commesso degli errori, ma sembra impossibile poter rivolgere delle critiche al governo bolivariano senza però fare il gioco dell’opposizione. Non si può prescindere dall’assedio politico, sociale ed economico che sta vivendo il Venezuela, per spiegare cosa sta succedendo. Ad esempio, l’alleanza di Caracas con Cina, Russia e Iran, al pari della sfida lanciata più volte da Miraflores al Washington Consensus, rappresenta un primo elemento chiave per comprendere l’accanimento nei confronti del processo bolivariano. A questo proposito, mentre Obama, nel marzo 2015, definiva il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti” e dichiarava la sua preoccupazione di fronte all’Osa (Organizzazione degli stati americani) per la situazione dei diritti umani, non si capisce perché non abbia tenuto lo stesso atteggiamento, come del resto Trump, verso paesi come il Messico e la Colombia, dove i desaparecidos si contano quotidianamente. Su questo aspetto, Luis Almagro, il prezzolato segretario dell’Osa, finora ha sempre taciuto. Lo stesso utilizzo del termine “dittatura” a proposito del presidente Maduro risulta quantomeno affrettato, soprattutto se confrontato con paesi quali Paraguay, Guatemala, la Colombia dell’ipocrita premio Nobel per la pace assegnato a Juan Manuel Santos, il Messico e la lista potrebbe continuare per un bel po’.

Il collasso economico del paese è stato utilizzato dalle destre come pretesto per compiere violenze di ogni tipo da parte di un’opposizione riunita sotto le bandiere della Mesa de la Unidad Democrática, al cui interno non vi è un blocco omogeneo, ma una serie di correnti che vanno dal liberalismo al fascismo, passando per un conservatorismo moderato. Inoltre, non esiste un progetto condiviso per far ripartire il paese, ma gli unici tratti comuni sono rappresentati da un’agenda reazionaria, da un’ideologia ossessivamente anti-chavista e da un programma economico incentrato sulla svendita di tutte le risorse naturali del paese, a partire da quelle che si trovano nella faglia petrolifera dell’Orinoco.

Il Venezuela rischia di trasformarsi nell’Irak dell’America latina e di vivere in maniera sempre più traumatica il post-chavismo. Se intervenisse anche il Comando Sur degli Stati uniti, per tutto il Venezuela, non solo quello che si identifica nella rivoluzione bolivariana, sarebbe la fine. 

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it.
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