Messico: guerra aperta agli operatori dell’informazione
Purtroppo, la persecuzione contro i giornalisti in Messico non è una novità. Nel 1976 l'allora presidente Echeverría mandò in frantumi l'esperienza di Excélsior, uno dei quotidiani più importanti dell'intero continente latinoamericano sotto la direzione di Julio Scherer García. Nel 1982 fu la volta di José Lopez Portillo, successore di Echeverría a Los Pinos, ad attaccare la rivista Proceso, anch'essa diretta da Julio Scherer García. “Non li pago perché mi attacchino”, disse il presidente, tagliando i finanziamenti a Proceso. Solo due anni dopo, nel 1984, avvenne un omicidio che segnerà uno spartiacque nella storia del giornalismo d'inchiesta messicano. A cadere, sotto cinque colpi di pistola, fu Manuel Buendía, che aveva iniziato a condurre un'indagine sul narcotraffico in cui erano coinvolti politici messicani e statunitensi. L'assassino, in quel caso, fu Juan Rafael Moro Ávila, cugino dell'ex presidente Manuel Ávila Camacho. Tutto ciò dimostra come il Messico, non da ora, non sia un paese dove i giornalisti possono svolgere tranquillamente la loro professione. Secondo i dati di Fapermex (Federación de Asociaciones de Periodistas Mexicanos), il numero di giornalisti assassinati dal 1983 ad oggi si aggira intorno alle 231 unità.
Il Messico si è trasformato nel cimitero dei giornalisti, come dimostra il caso di Javier Valdez, il corrispondente de La Jornada ucciso recentemente, e l’inquietante diffondersi del cosiddetto narcoperiodismo. Era stato lo stesso Valdez a coniare questa definizione, evidenziando la sempre più insistente infiltrazione del narcotraffico nelle redazioni dei quotidiani sotto due modalità. Ci sono i giornalisti che esercitano la professione sotto minaccia di morte costante e senza alcuna libertà editoriale e coloro che invece fanno giornalismo rispondendo direttamente all’agenda criminale dei narcos. Il narco-giornalismo, amava ripetere Valdez, “rappresenta l’evoluzione naturale del rapporto storico tra giornalismo e priismo” (il Partido Revolucionario Institucional, al potere con Peña Nieto e, in precedenza, per 70 anni alla guida del paese) e, in questo contesto, non sorprende che l’omicidio degli operatori dell’informazione rappresenti la routine nel processo di eliminazione fisica dei giornalisti non allineati. Raúl Zibechi, in un articolo scritto su Resumen Latinoamericano lo scorso 31 marzo, ha evidenziato che sono morti meno giornalisti (79) nei venti anni della guerra del Vietnam, dal 1955 al 1975, che in Messico dal 2000 ad oggi. Lo Stato è l’artefice principale dell’attuale crisi sociale, politica e umanitaria del Messico, dove l’istituzione predominante è l’impresa criminale composta dai vari signori del narcotraffico, con il sostegno istituzionale dello stesso Stato, la cui politica si regge sul terrore e sulla cosiddetta narcoeconomia.
Fondatore del settimanale dello stato di Veracruz Rio Doce, Javier Valdez sosteneva che per lo Stato uccidere un giornalista era il modo più semplice per mettere a tacere la verità su quanto stava accadendo in Messico e lo aveva anche scritto nei suoi libri di inchiesta (Con una granada en la boca, Miss Narco, Historias reales de desaparecidos y víctimas del narco, tra gli altri) che svelavano i rapporti tra il narcotraffico e le istituzioni. In Messico il numero dei giornalisti morti è molto più alto degli operatori dell’informazione caduti in scenari di guerra dichiarata come la Siria o l’Afghanistan. La strage dei normalistas di Ayotzinapa ha fatto cadere definitivamente la maschera a proposito dello stretto legame tra lo Stato e i narcos. “Che ci uccidano tutti, se questa deve essere la condanna a morte per chi racconta questo inferno” aveva scritto su twitter Valdez pochi giorni prima del suo omicidio. Poche ore dopo la sua esecuzione, è stata la volta di Sonia Córdova, direttrice del settimanale El Costeño (nello stato d Jalisco) e, in precedenza, in questi primi sei mesi del 2017 sono stati assassinati Miroslava Breach, anch’essa corrispondente de La Jornada, come Valdez, Ricardo Monlui Cabrera (nel Veracruz), direttore del portale El Político de Xalapa, il giornalista del blog Colectivo Pericú, Maximino Rodríguez Palacio (Baja California Sur) e Cecilio Pineda Birto, collaboratore del quotidiano El Universal. L’omicidio dei giornalisti in Messico ha una doppia finalità: zittire un settore strategico della società messicana a colpi di pistola e manipolare la libertà di espressione favorendo i mezzi di comunicazione più potenti. Javier Valdez e gli altri colleghi caduti avevano un compito imprescindibile come giornalisti: denunciare il narcotraffico e tutti i legami e gli agganci dei cartelli della droga ai più alti livelli istituzionali. Non volevano che nessuno potesse imputare loro di non aver raccontato l’inferno messicano.
Di fronte alla mattanza dei giornalisti, come del resto in occasione della strage di Ayotzinapa e di tanti altri episodi di repressione, la responsabilità è dell’elite statale: “Fue el Estado!” è lo slogan scandito sempre più spesso nelle piazze di tutto il paese.
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