Latina

Incontro con l’avvocato Andrea Speranzoni e Alejandro Montiglio, figlio del capo scorta di Salvador Allende

La memoria ostinata. Il processo al Plan Cóndor e la lotta per la giustizia in America latina

L’iniziativa si è svolta in occasione del festival resistente “Montemaggio 2017”, nella Montagnola senese
4 giugno 2017
David Lifodi

festival montemaggio 2017

“Per mio padre l’unica scelta possibile era quella di abbracciare il socialismo”: è così che Alejandro Montiglio parla di suo padre, Juan José, capo scorta di Salvador Allende rapito, torturato e ucciso a seguito del bombardamento della Moneda  l’11 settembre 1973, il giorno del colpo di stato in Cile. Alejandro Montiglio, insieme all’avvocato di parte civile Andrea Speranzoni, ha partecipato all’incontro “La memoria ostinata. Il processo al Plan Cóndor e la lotta per la giustizia in America latina”, che si è tenuto il 3 giugno nell’ambito del festival resistente “Montemaggio 2017” a Casa Giubileo, nei boschi della Montagnola senese dove, il 28 maggio 1944, 19 partigiani furono fucilati in località La Porcareccia dai fascisti.

Speranzoni ha esordito sottolineando che la giustizia penale in America latina ha fallito poiché i processi hanno cominciato ad essere celebrati a distanze abnormi rispetto ai fatti, come del resto è successo in Italia per i crimini nazifascisti e per la strategia della tensione e delle bombe di stampo neofascista, che ha lasciato una lunga scia di sangue a partire dalla strage di piazza Fontana. Se i processi si fossero tenuti subito dopo la seconda guerra mondiale, o all’inizio degli anni ’80 (ad esempio per il caso dell’attentato del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna), l’effetto sociale sarebbe stato molto diverso. In più, in America latina, a proposito del processo che ha avuto luogo lo scorso gennaio a Roma, nel carcere di Rebibbia, per i responsabili del sequestro e della scomparsa di 23 cittadini di origine italiana nell'ambito del Plan Cóndor, hanno pesato non solo la lontananza da quella realtà a livello geografico, ma anche il diverso contesto sociale. Raramente, ha evidenziato l’avvocato Speranzoni, le rogatorie internazionali hanno portato a risposte soddisfacenti e, nel frattempo, gran parte dei testimoni sono deceduti. Il verdetto italiano dello scorso 17 gennaio si è concluso con 8 condanne all’ergastolo per i torturatori di allora, ma anche con 17 assoluzioni, di cui 14 targate Uruguay.

Solo pochi giorni fa, a Montevideo, si è tenuta una manifestazione a cui hanno partecipato oltre 400mila persone. Due gli striscioni che hanno catturato l’attenzione dell’avvocato: “Responsabilità dello Stato, ieri come oggi” e “Noi siamo memoria, ma siamo anche vita aperta”. In Uruguay, negli ultimi tempi, è cresciuta l’insoddisfazione dei familiari dei desaparecidos e delle organizzazioni sociali nei confronti di uno Stato che, seppur da anni guidato dal centrosinistra, avrebbe potuto fare di più, a partire dall’eliminazione della Ley de Caducidad, rimasta paradossalmente in vigore grazie al voto di Víctor Semproni, deputato frenteamplista e soprattutto ex-guerrigliero torturato sotto il regime militare che, il 20 maggio 2011, scelse di astenersi, consentendo così alla legge di non essere cancellata. Semproni motivò la sua scelta spiegando che non se la sentiva di esprimersi contro la volontà popolare, favorevole a maggioranza al mantenimento della legge nelle due consultazioni del 1989 e del 2009. 

Tra i casi maggiormente dibattuti quello di Jorge Nestor Troccoli, cittadino di origine italiana che, all’epoca del regime militare instaurato da Juan María Bordaberry in Uruguay, fu uno dei principali repressori e torturatori in qualità di elemento di spicco della Marina. Quando nel paese è tornata la democrazia si è iscritto all’Università, a Montevideo, prima di essere scoperto dagli stessi studenti, che ne denunciarono la sua vera identità. In un suo vecchio libro, “L’ira del Leviatano”, Troccoli rivendicava apertamente la tortura e lo ha fatto anche in Italia, sapendo bene che nel nostro paese non è previsto questo tipo di reato  (come emerso anche nel caso del G8 di Genova del 2001) e, del resto, tutti i repressori giudicati in Italia sono stati processati solo per il reato di omicidio plurimo, ma non per quelli di sparizione forzata e, appunto, di tortura. Non è un caso che, in più circostanze, Troccoli abbia deliberatamente capovolto il concetto di desaparición: “Siete voi che utilizzate questa categoria in modo odioso”, ha detto. “Queste persone non sono desaparecidos, sono morte”, ha affermato Troccoli, rivendicando la tortura e la sparizione forzata come prassi criminale. Al contrario, ha precisato l’avvocato Speranzoni, “la desaparición è una condizione di tortura permanente perché non permette di elaborare il lutto”, come ha sancito la sentenza di un tribunale argentino.

In questo contesto, Speranzoni ha parlato delle difficoltà di indagare su tutta quella zona intermedia tra gli alti vertici militari e coloro che svolgevano il lavoro sporco per conto delle dittature, rimasta sostanzialmente impunita. Solo in Argentina, prima dell’attuale presidente Macri, che sta distruggendo ogni giorno la memoria dei desaparecidos e infangando il lavoro delle associazioni impegnate a difendere i diritti umani, sono stati condotti numerosi processi contro i torturatori, ma nemmeno uno si è tenuto in Cile, per i fatti dell’11 settembre 1973, o in Uruguay, dove la Ley de Caducidad impedisce lo svolgimento di processi a carico dei militari, responsabili di aver fatto sparire nel nulla 500 persone in un paese con soli tre milioni di abitanti. Il Plan Cóndor, varato nel 1975 a Santiago del Cile nel corso di una riunione presieduta da Manuel Contreras, uomo di primo piano della Dina, la polizia politica cilena, aveva già iniziato a funzionare fin dal 1974, con il caso di un cittadino italo-uruguayano desaparecido. La storiografia, spiega Speranzoni, parla di almeno centomila desaparecidos nell’ambito del Plan Cóndor.

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“Molti di loro non sono scomparsi per caso”, ha ribadito Alejandro Montiglio, raccontando l’eroica resistenza del padre e di tutti gli uomini della scorta di Salvador Allende (il Gap – Grupo de Amigos del Presidente), che hanno combattuto non solo per il compañero presidente, ma per il Cile e per tutta l’America latina. “Sono orgoglioso di essere figlio di questa generazione”, ha sostenuto con orgoglio Montiglio, ricordando come allora gli Stati uniti avessero come nemico principale il comunismo, come oggi è l’Islam. Il padre di Alejandro, dopo la cattura, è stato torturato e il suo corpo gettato in una fossa: sono rimasti solo tre frammenti del suo corpo. Eppure, spiega Montiglio, fin dalla metà degli anni Sessanta il Pentagono aveva già iniziato a monitorare con attenzione la situazione politica cilena e, dalla fondazione, a Panama, della Scuola delle Americhe, il centro di addestramento militare specializzato nella destabilizzazione dell’intero continente latinoamericano, nascerà poi il tessuto sociale da cui è derivato il Plan Cóndor.  Fortunatamente, ha evidenziato l’avvocato Speranzoni, la giurisprudenza ha riconosciuto il Plan Cóndor come un’associazione per delinquere, un patto tra stati di natura criminale, ma proprio per questo motivo, gran parte delle fonti è stata volutamente distrutta, come avvenuto anche in Italia con i crimini nazifascisti. Speranzoni, a questo proposito, cita il caso di Maria Asunción Artigas, giovane uruguayana rapita insieme al marito e condotta al centro di detenzione clandestino Pozo de Banfield, in Argentina. La donna fu aiutata a partorire e poi le fu strappata la neonata, come avveniva solitamente in questi casi, per assegnarla a famiglie vicine alla dittatura. La figlia, che nel frattempo ha scoperto la vera identità ed ha testimoniato anche in occasione del processo di Roma, non è però riuscita, come del resto la giustizia, a risalire alle fonti. Il verbale di tutto ciò era nelle mani della Marina uruguayana, che però ha sostenuto di non essere a conoscenza della provenienza, e quindi ha finito per essere nullo.

Contemporaneamente, ha evidenziato Speranzoni, l’istituzionalizzazione delle dittature nel Cono Sur latinoamericano è avvenuta tramite il terrore, lo stato d’eccezione, che ha significato la sospensione dei principi di legalità e dell’habeas corpus giudiziario e l’omicidio indiscriminato come forma massima di disprezzo nei confronti delle vittime, sia che si tratti degli oppositori politici in America latina sia nel caso delle comunità di Sant’Anna di Stazzema e Montesole, vittime dei nazisti, sia di coloro che si trovavano alla stazione di Bologna, in piazza della Loggia o in piazza Fontana.

Infine, i relatori hanno parlato anche del ruolo svolto dagli statunitensi nell’ambito del Plan Cóndor, non solo per quanto riguarda il sostegno politico della Casa Bianca ai regimi militari del Cono Sur, ma anche tramite uomini che si sono dedicati a svolgere il lavoro sporco. Il caso più significativo riguarda Michael Townley, cittadino statunitense agente della Dina cilena (e della Cia), responsabile di aver partecipato all’organizzazione dell’omicidio del diplomatico cileno Orlando Letelier, avvenuto il 21 settembre 1976 a poche centinaia di metri dalla Casa Bianca, oltre ad essere stato coinvolto, insieme alla manovalanza neofascista italiana, nel tentato assassinio di Bernardo Leighton, esponente della Democrazia cristiana cilena in esilio a Roma e tra i pochi, nel suo partito, ad essere contrario al colpo di stato dell’11 settembre 1973, fin quando non fu costretto a lasciare il suo paese.

Alla luce di quanto hanno raccontato Speranzoni e Montiglio emerge un quadro preoccupante perché il percorso della giustizia ancora oggi appare arduo nei confronti dei torturatori di allora, mentre sono molti gli analisti politici latinoamericani e gli operatori dell’informazione indipendente a denunciare il rischio di un nuovo Plan Cóndor ai giorni nostri, come dimostra la santa alleanza tra destre eversive nella situazione venezuelana, brasiliana, colombiana o messicana, solo per fare alcuni esempi. E allora, restano attuali, una volta di più, le parole d’ordine delle Madres e delle Abuelas della Plaza de Mayo: Ni olvido, ni perdón.  

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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