Presidenziali Brasile: in gioco la democrazia del paese e dell'intera America latina
Bolsonaro è noto per le sue posizioni da ultraconservatore, parla alla pancia delle persone e in molti lo definiscono come il Donald Trump del Brasile. Le sue simpatie per il regime militare che instaurò una lunga dittatura in Brasile (dal 1964 al 1985) sono altrettanto conosciute e questo fa paura in un paese che invoca un'ulteriore militarizzazione a seguito della costante crescita del numero di omicidi, tra cui anche quello dell'attivista Marielle Franco, avvenuto la scorsa primavera. Di fronte al rischio concreto di cadere nell'abisso del fascismo, lo scorso 29 settembre si sono mobilitate le donne di tutto il paese all'insegna dello slogan #EleNão. Bolsonaro non viene nemmeno chiamato per nome, ma con un distante "lui" o addirittura con il dispregiativo nomignolo di "coso". Il "coso" non può e non deve salire al Planalto, ma impedirglielo non sarà facile, nonostante un fronte ampio di opposizione antirazzista e antifascista che va dai movimenti urbani alle donne, dagli indios ai lavoratori, dai contadini agli studenti fino alla comunità lgbt.
Eppure Bolsonaro, di recente vittima dell'attentato di uno squilibrato in passato appartenente al Psol (Partido Socialismo e Liberdade), su cui l'ultradestra ha speculato con l'appoggio della grande stampa internazionale, fino a sostenere che il mandante era Lula, secondo molti sondaggi non solo è pronosticato come sicuro al ballottaggio, ma sarebbe in testa anche nelle intenzioni di voto dei brasiliani. Attaccare ogni giorno lo stato di diritto e circondarsi di nemici sembra essere una strategia che paga. Dal canto suo, Fernando Haddad ha il compito di calarsi nella vita di tutti i giorni dalla figura di intellettuale che riveste. Pur essendo stato sindaco di San Paolo e da sempre iscritto al Pt, si teme che non riesca ad attrarre le masse delle cinture industriali delle megalopoli brasiliane e nemmeno i milioni di contadini che vivono nei luoghi più abbandonati del paese e che si sentono lasciati a se stessi dallo Stato, non a caso non ha mai avuto uno stretto legame con la classe lavoratrice.
A decidere le presidenziali brasiliane, o quantomeno il primo turno, sarà probabilmente il voto delle donne e quello del grande capitale, non tutto schierato a sostegno di Bolsonaro. In un'intervista rilasciata al sito web Rebelión, Luciano Wexell Severo, docente di Economia, integrazione e sviluppo all'Università federale dell'integrazione latinoamericana (Unila), afferma che una parte di elite appoggia Bolsonaro, così come un buon numero di militari, ma nessuno evidenzia che il candidato alla guida del Brasile "è stato congedato dall'esercito per insubordinazione e indisciplina. Sfortunatamente rappresenta una parte dei brasiliani, non a caso dal 1991 è stato eletto consecutivamente deputato federale per Río de Janeiro, ma le sue campagne di odio contro movimenti popolari, neri, omosessuali, comunità indigene, donne e senza terra lo hanno contrapposto di fatto ad un'ampia parte dell'elettorato". Bolsonaro cerca di presentarsi come il salvatore della patria ed il timore maggiore è che le persone, di fronte alle scarse o nulle possibilità di vittoria degli altri candidati della destra, dal tucano Geraldo Alckmin alla poco credibile Marina Silva, votino per "coso" per disperazione, osserva ancora Wexell Severo.
Nonostante Alckmin abbia il sostegno dell'ex presidente Cardoso sembra difficile che possa inserirsi nella corsa per la presidenza, pur vantando una grande esperienza nell'amministrazione della cosa pubblica e del resto è da almeno 16 anni che la "socialdemocrazia" (destra liberale) brasiliana perde le elezioni, prima contro Lula e poi contro Dilma Rousseff. Quanto a Marina Silva, presentatasi come alternativa a Lula e al Pt, con il tempo ha finito per legarsi sempre più alle grandi elites transnazionali e a personaggi politicamente assai ambigui, dall'inglese Tony Blair ai Clinton fino all'israeliano Barak. In uno scenario così confuso, Haddad ha già offerto spazio politico, in un suo ipotetico governo, a Ciro Gomes, del centrista Partido Democrático Trabalhista, per il quale sembra propendere non più del 10% dei brasiliani, che toglierebbero però in questo modo voti al delfino di Lula. Difficile capire se la strategia del Pt, volta ad orientare il voto di tutta la sinistra brasiliana su Haddad, avrà successo o meno, anche in considerazione della presenza, a sinistra del Pt, del Partido Socialismo e Liberdade di Guilherme Boulos.
Dall'arrivo del golpista Temer alla presidenza il Brasile si trova immerso in una bolla neoliberista che ha distrutto i più elementari diritti conquistati dai lavori in decenni di lotta. Le stime parlano di 13 milioni di disoccupati, 27 milioni di sotto impiegati e di almeno 5 milioni di persone che hanno rinunciato a cercare lavoro, mentre cresce il lavoro informale e la violenza dello Stato contro le fasce sociali più povere del paese. Ci sarà tempo, dopo le presidenziali, per una riorganizzazione del Pt, se Bolsonaro verrà sconfitto, ma adesso, pur con tutte le contraddizioni del più grande partito dei lavoratori dell'America latina e dello stesso Lula (che insistendo sulla sua sua figura di leader incontrastato e rivendicando le sue politiche sociali spesso più in chiave assistenziale ha sollevato numerose perplessità), ciò che importa è evitare la fascistizzazione del paese.
Di Trump ne basta uno negli Stati uniti, avere un suo clone in America latina rappresenterebbe un duro colpo per ciò che rimane del Sudamerica progressista.
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