Nicaragua: L’opposizione del «tutto o niente»
Per l'opposizione questo significa la liberazione dei “prigionieri politici", fine della repressione e dei sequestri, osservanza e rispetto degli standard internazionali relativi al trattamento dei detenuti e fine delle minacce ai loro parenti.
L’annuncio è arrivato meno di 24 ore dopo quello della Conferenza episcopale del Nicaragua di respingere l'invito fatto dal governo e dall’opposizione al cardinale Leopoldo Brenes, di accompagnare la negoziazione insieme al nunzio apostolico Waldemar Stanislaw Sommertag e a un rappresentante della chiesa evangelica.
Il ruolo della gerarchia cattolica
In un comunicato, la gerarchia cattolica nicaraguense chiarisce che “dovranno essere i laici ad assumersi direttamente la responsabilità di gestire in questo momento le questioni temporali della nazione”.
Una decisione che, lungi dal significare la volontà dei vescovi di non prendere parte al negoziato per accompagnare “come pastori questi momenti cruciali della nostra patria”, dedicandosi “alla preghiera e al ministero della Parola”, sembra più che altro nascondere la loro irritazione per non essere stati riconfermati nel ruolo di mediatori, ricoperto lo scorso anno nell'ambito del primo disastroso tentativo di dialogo.
In quell'occasione, i vescovi si schierarono apertamente a favore di una delle due parti -l’Alleanza Civica- e cercarono in tutti i modi di imporre al governo una road map pericolosamente inconstituzionale, stravolgendo di fatto l’essenza e i principi di neutralità e imparzialità che caratterizzano il ruolo di un mediatore.
Si schierarono inoltre a favore delle barricate (tranques) costruite in tutto il paese dall’opposizione come misura di pressione contro il governo. Uno 'strumento' che divenne ben presto fonte e luogo di violenza, ricatto e morte.
In questo modo, la conferenza episcopale contribuì in modo determinante al fallimento di quel primo tentativo di cercare una soluzione pacifica a una crisi che ha fatto centinaia di vittime e ha diviso la società.
L'abbandono del tavolo da parte dell’Alleanza Civica contrastava poi con l'annuncio dell'Organizzazione degli stati americani, Osa, di volere inviare Angel Luis Rosadilla in qualità di delegato del segretariato generale Almagro e di garante internazionale del negoziato. Contrastava inoltre con l’apertura mostrata poche ore prima dal governo.
Nel comunicato del 9 marzo, il governo annunciava la volontà di discutere le principali richieste fatte dall’opposizione, tra cui rafforzare le istituzioni elettorali in vista di elezioni libere e trasparenti, giustizia e riparazione per le vittime, liberazione di persone arrestate e non ancora processate nel contesto di atti ciminali commessi lo scorso anno e revisione dei casi di quelle persone cha hanno già avuto una condanna.
Invitava inoltre la comunità internazionale a sospendere le sanzioni appovate fino a quel momento contro il popolo nicaraguense.
La decisione presa dall’Alleanza Civica domenica scorsa sembra quindi rispondere alle pressioni interne dei settori più radicali. Quelli, per intenderci, che l’anno scorso hanno gettato benzina sul fuoco promuovendo la costruzione di barricate in tutto il paese, che hanno boicottato costantemente e sistematicamente una soluzione pacifica della crisi e che hanno cercato in tutti i modi d’imporre la rottura dell’ordine costituzionale in Nicaragua, esigendo dimissioni immediate del governo e di tutte le istituzioni, l'installazione di un fantomatico 'governo di transizione' ed elezioni generali fuori dai termini previsti dalla Costituzione.
Quegli stessi settori che hanno inondato i social con notizie false e mezze verità, usando i propri ‘media indipendenti’ per promuovere la polarizzazione della società e alimentare un clima d’intolleranza, scontro e violenza.
La progressiva e inarrestabile perdita di consenso all’interno della società nicaraguense obbliga questi settori a puntare tutto sulla pressione internazionale e su una crisi economica indotta che obblighi il governo a capitolare.
Ma cosa c’è di reale nel racconto degli irriducibili del caos?
Informazioni contrastanti
L’ultimo rapporto -il terzo- presentato recentemente dalla Commissione parlamentare per la verità, giustizia e pace (CVJP), dice che “dopo un rigoroso percorso di ricerca, analisi e verifica” si è in grado di determinare che il numero di persone decedute è di 253, in prevalenza uomini (243) e minori di 35 anni (175). Dei decessi totali, 220 sono direttamente collegati al conflitto, 27 a seguito del fuoco incrociato e 6 non hanno a che fare in modo diretto con esso.
Almeno 9 delle persone che appaiono nelle liste pubblicate dalle organizzazioni per i diritti umani, tra cui il Gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti (GIEI) dell’Organizzazione degli stati americani (OSA), non esistono. C'è anche una differenza di 14 morti tra i due elenchi (CVJP e GIEI /OSA).
Un altro dato importante che smantella in parte la teoria del “massacro di oppositori pacifici e disarmati”, diffusa dai gruppi dell’opposizione, dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani e ripresa sia dall’OSA che dall’Ufficio dell’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (UNHCHR) e dai media mainstream, è quello relativo al totale delle morti: 31 appartengono a “gruppi di autoconvocati” (opposizione), 48 sono presunti affiliati sandinisti, 22 sono poliziotti e per i restanti 152 non ci sono informazioni certe.
140 persone sono morte a causa dei tranques eretti dai gruppi di opposizione, 31 durante le proteste per la riforma della previdenza sociale, 27 a causa del fuoco incrociato, 13 sono stati uccisi per cause indipendenti dalla protesta (assalti, rapine) e 11 tutelando la proprietà pubblica e privata.
Il 56% dei decessi (141) si è verificato tra maggio e giugno 2018, dopo l’annuncio dell’apertura del tavolo di dialogo tra governo e opposizione e l’immediato proliferare di tranques in tutto il Paese “come forma di coercizione contro il governo”.
La stragrande maggioranza dei morti erano operai (60), lavoratori autonomi (57) e disoccupati (40). Sono morti anche 7 studenti delle scuole superiori e 8 studenti universitari.
Questo ultimo dato -8 studenti universitari deceduti- contraddice la notizia fatta circolare insistentemente sia dai media mainstream che dai ‘media indipendenti’ dell’opposizione, secondo la quale in Nicaragua ci sarebbe stata una massiccia rivolta studentesca “pacifica, autoconvocata e disarmata”, che è stata poi repressa nel sangue dalla polizia e da forze paramilitari, causando una vera e propria “strage di studenti”.
La CVJP ha anche rilevato nelle principali carceri del paese la presenza di 438 detenuti dirrettamente vincolati agli eventi violenti dello scorso anno. Nuove visite realizzate lo scorso gennaio hanno permesso di aggiornare tali dati: 76 persone sono già state rilasciate e 362 restano in carcere, alcune in attesa di processo e altre con condanne in in primo grado.
“Tra i prigionieri non abbiamo riscontrato evidenze di lesioni personali, nè testimonianze circa l’essere stati sottoposti a tortura, trattamenti crudeli o disumani”, si legge nel rapporto della commissione parlamentare.
Quasi 28 milioni di dollari è l’importo dei danni provocati dalle ‘proteste pacifiche’ alle infrastrutture pubbliche nel 55% dei municipi (84 su un totale di 153)
Nessuna delle organizzazioni nazionali e internazionali dei diritti umani che hanno visitato e hanno organizzato missioni in Nicaragua ha voluto riunirsi con la CVJP per confrontare i nomi delle vittime, dati e cifre. Nessuna delle denunce di simpatizzanti o militanti sandinisti che sono stati vittime di sequestri, torture, vessazioni, trattamenti inumani durante la crisi socio-politica sono state prese in considerazione, nè inserite nei voluminosi rapporti sui diritti umani in Nicaragua pubblicati da tali organizzazioni.
Quegli stessi rapporti che sono stati poi usati come base per avviare ritorsioni internazionali e imporre sanzioni contro il governo nicaraguense e alcuni dei suoi funzionari.
“O tutto o niente”
Per creare un ambiente propizio al dialogo, alla fine di febbraio sono state concesse misure alternative alla detenzione a un centinaio di persone accusate di crimini legati agli scontri dello scorso anno.
Un’opposizione sempre più divisa e litigiosa e caratterizzata da una crescente perdita di rappresentatività all’interno della società nicaraguense ha dovuto ritornare sui suoi passi e sedersi nuovamente al tavolo di negoziazione.
La decisione è stata presa nell serata di mercoledì 13 marzo, dopo due giorni di intense riunioni con i delegati del governo, il nunzio apostolico e l’inviato speciale dell’Osa. Alla fine degli incontri, il governo ha accettato la richiesta dell’Alleanza Civica di rilasciare “un cospicuo numero di persone detenute a causa dei fatti accaduti a partire da aprile 2018”.
Raggiunto l’accordo, le parti hanno deciso di riaprire il tavolo questo giovedì 14 marzo e si è definita la data del 15 marzo per la liberazione delle persone detenute.
La decisione è stata criticata dai settori più radicali dell’opposizione.
Alcune sigle di un non ben definito “movimento studentesco” (vedendo in questi giorni le file interminabili di studenti fuori dalle università per l’iscrizione al prossimo anno accademico risulta difficile capire chi stiano rappresentando i giovani che, fuori e dentro del paese e attraverso i social, parlano a nome di migliaia di coetanei) e di una ancor meno definita articolazione di movimenti sociali e società civile hanno declinato l’invito e si sono chiamati fuori.
Mentre, tra difficoltà, intoppi ed estenuanti tira e molla le parti sedute al tavolo cercano di riportare la pace e la tranquillità in Nicaragua -che non vuol dire impunità e oblio, ma verità, giustizia, riparazione e riappacificazione- i soliti irriducibili del “tutto o niente” scelgono la strada più facile: quella dello scontro a oltranza, dell’odio, della rottura dell’ordine costituzionale e dell’ingerenza internazionale.
E purtroppo sono ancora in tanti a credergli.
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