Latina

Le proteste hanno spinto il presidente ad abbandonare Palacio de Carondelet

Ecuador: Lénin Moreno fugge a Guayaquil

Cresce la mobilitazione indigena, ma anche la repressione governativa
9 ottobre 2019
David Lifodi

proteste contro Lenin Moreno

L’Ecuador è un vulcano in eruzione. Il presidente Lénin Moreno è stato costretto dalle proteste popolari a lasciare Quito per trasferirsi, armi e bagagli, sulla costa, a Guayaquil, dopo aver prorogato il coprifuoco e aver scatenato una violenta repressione. Per oggi, 9 ottobre, la Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador), insieme al Frente Unitario de Trabajadores  e al FrentePopular, ha proclamato uno sciopero generale e indetto una manifestazione di fronte al Palacio de Carondelet: è stato questo a convincere Moreno ad abbandonare Quito.

I fatti di questi ultimi giorni non possono non ricordare il levantamiento contro la dollarizzazione imposta nel 2000 da Jamil Mahuad e Gustavo Noboa. Dalla costa, dove ha deciso di spostare tutte le attività governative, il presidente continua ad equiparare le manifestazioni ai saccheggi. Il paquetazo, per la popolazione ecuadoregna, rappresenta una consegna totale del paese al Fondo monetario internazionale e all’oligarchia. Di fatto, per conto del Fmi e dei terratenientes, Lénin Moreno ha scatenato una vera e propria guerra economica contro un popolo che, in gran maggioranza, lo aveva eletto per poi vedersi tradito già pochi mesi dopo il suo insediamento a Palacio de Carondelet. Adesso, la fuga verso Guayaquil assomiglia ad una resa e rappresenta una delegittimazione totale del suo operato.

Il paquetazo e le cosiddette terapias de choque, come le ha definite lo stesso presidente per giustificare  l’aumento del carburante del 123% e, di conseguenza, dei prezzi del trasporto pubblico, hanno spinto a scendere in piazza un intero paese. Pochi giorni fa, nella Sierra di Chimborazo, le comunità indigene hanno tenuto in ostaggio 47 agenti, protestando contro la brutale repressione dello Stato e dichiarando il loro diritto all’autodeterminazione. Sono state le stesse comunità indigene a contribuire nella cacciata di tre presidenti dal paese: Bucaram, Mahuad e Gutiérrez. La stessa Conaie ha accusato il governo di sostenere l’ingresso delle multinazionali petrolifere nelle loro terre tramite la protezione dell’esercito ed ha promesso che marcerà verso Quito per contestare Lénin Moreno, colpevole di aver inviato la polizia ad accerchiare le comunità.

Il Fondo monetario, sostengono i movimenti sociali,è stato convocato da Lénin Moreno per poner la casa en orden, cioè impoverire la popolazione e far pagare alle fasce sociali più povere del paese una crisi pilotata dall’alto. I primi effetti di quella che può essere considerata a tutti gli effetti come una guerra di classe sono già sotto gli occhi di tutti: centinaia di arresti e molti manifestanti feriti rappresentano la faccia più feroce della restaurazione del neoliberismo. Paradossalmente, di fronte ad una maggioranza di ecuadoregni che è costretta a fare i conti con gravi problemi economici, una ridotta minoranza accumula guadagni come mai aveva fatto fino ad ora. Secondo la Banca centrale dell’Ecuador, con Lénin Moreno alla presidenza, dal maggio 2017 al gennaio 2019, il paese si è indebitato per 11.722 milioni di dollari. Sostenuto soltanto dalla Confindustria locale, dai media allineati e dalle banche, il presidente ha innalzato il prezzo del diesel da 1,03 a 2,30 dollari e la benzina da 1,85 a 2,39 dollari, mentre il potere d’acquisto di gran parte della nazione è in caduta libera.

Da Guayaquil, teatro anch’essa di manifestazioni di protesta, Lénin Moreno ha ordinato l’arresto di alcuni dirigenti sociali indagati per aver promosso la paralisi dei servizi pubblici. La fine dello sciopero corporativo dei transportistas, che dopo aver ottenuto quanto richiesto dal governo hanno interrotto la protesta, aveva illuso Lénin Moreno che il paese potesse tornare rapidamente sotto controllo. A quel punto, è invece salita alla ribalta la mobilitazione indigena nelle province di Pichincha, Cotopaxi, Tungurahua, Azuay, Cañar e Loja, volta ad ottenere non solo l’immediata sospensione del paquetazo, ma anche delle concessioni alle multinazionali per la costruzione di miniere a cielo aperto. La Conaie ha denunciato che militari e polizia hanno represso duramente le manifestazioni indigene, anche tramite l’utilizzo di lacrimogeni e pallottole di gomma.

I collettivi femministi parlano di 267 arresti, fino al solo 4 ottobre, e di due dirigenti indigeni arrestati, Marlon Santi (Pachakutik) e Jairo Gualinga (Conaie). La brutalità delle forze armate è stata anche giustificata dalle provocatorie dichiarazioni della ministra María Paula Romo, la quale si definisce come “femminista e di sinistra”, ma che è passata dal correista Alianza País a Guillermo Lasso, il candidato delle destre contro Lénin Moreno in occasione delle ultime presidenziali, per poi appoggiare il presidente a seguito della sua incredibile giravolta che lo ha condotto verso le destre dopo essersi presentato come il candidato delle sinistre.

Resta adesso da chiedersi se Lénin Moreno riuscirà a resistere o se la fuga verso Guayaquil è solo il primo passo per abbandonare un paese che, in grande maggioranza, ormai lo ha rifiutato.

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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