Le Ande rivendicano democrazia e giustizia sociale
In Bolivia i golpisti hanno le sembianze dei vecchi regimi militari anni Settanta, che rispondono al nome dell’eterno Jorge “Tuto” Quiroga, già delfino del dittatore Hugo Banzer adesso nominato “delegato per i rapporti con la comunità internazionale”, dei fondamentalisti evangelici quali Fernando Camacho e di Carlos Mesa, già sodale dell’ex presidente Sanchez de Lozada, cacciato dai boliviani e costretto a fuggire in fretta e furia negli Stati uniti. In Cile e Colombia, invece, l’oligarchia che fa capo al filopinochettista Piñera e all’uribista Duque cerca di resistere alternando qualche minima concessione ad azioni di violenta repressione, all’insegna della quale sta governando anche la presidenta boliviana Jeanine Añez, nota per le sue posizioni apertamente razziste verso gli indigeni.
Quest’ultima, tramite la sua ministra degli Esteri Karen Longaric, ha fatto sapere che in Bolivia non si è verificato un colpo di stato, come se Jeanine Añez fosse stata eletta democraticamente a seguito di libere elezioni. Hugo Cayrús, ambasciatore uruguayano in seno all’Osa, l’Organizzazione degli stati americani, ha parlato apertamente di golpe, lo stesso hanno fatto, da Messico e Argentina, Amlo e il neo presidente Alberto Fernández. Proprio dalla frontiera con Argentina e Cile, in Bolivia si è cominciato ad avere sentore che fosse in corso un tentativo di colpo di stato. Stella Calloni, giornalista argentina corrispondente per il quotidiano messicano La Jornada, ha scritto che “la geopolitica del litio” è stata determinante nello scatenare il golpe, sottolineando che già dal 2018, Mauricio Macri aveva firmato un accordo con gli Stati uniti per l’aumento della presenza militare al confine con la Bolivia. Sempre nel 2018, in agosto, si verificarono incursioni militari Usa alla frontiera con la Bolivia, ufficialmente per fare esercitazioni in caso di disastri naturali, ma in realtà il fine ultimo era quello di impadronirsi del litio boliviano, come denunciato dallo stesso Evo Morales, che criticò con forza la missione Estrella Austral, caratterizzata dalla presenza di paracadutisti, elicotteri e blindati inviati da Macri e dagli Stati uniti alla frontiera di Argentina e Cile con la Bolivia.
Gli scioperi promossi dalla piattaforma della Mesa de Unidad Social hanno impressionato la casta politica cilena, soprattutto perché hanno aderito alle sue rivendicazioni gran parte dei lavoratori cileni, dai netturbini agli infermieri fino ai portuali e ai dipendenti delle catene della grande distribuzione. In questa vera e propria rivolta di classe, al grido di Dignidad se haga costumbre, le donne hanno rivestito un ruolo di primo piano, non limitandosi a chiedere che il 50% dell’Assemblea costituente sia femminile, ma organizzando massicce e partecipate manifestazioni che hanno trovato il sostegno anche degli studenti di scuole e università private.
Inoltre va sottolineato il paradosso del duqueuribismo, che incita i venezuelani a rovesciare Maduro (e appoggia il Tiar, il Tratado Interamericano de Asistencia Recíproca, un vero e proprio atto di guerra verso Miraflores), ma stigmatizza la protesta interna nei suoi confronti. Operai, collettivi studenteschi, comunità indigene e l’intera società colombiana rivendicano democrazia e giustizia sociale contro la violenza di stato. In tutto il paese, dallo sciopero del 21 novembre ad oggi sono scese in piazza oltre due milioni e mezzo di persone per dire no al modello economico neoliberale che rende precario il lavoro e la vita, all’estrattivismo e alla concentrazione della ricchezza in quelle poche mani che svendono le risorse naturali del paese alle multinazionali.
Duque, Piñera e Añez confidano nelle festività natalizie affinché la protesta si spenga. Soprattutto in Colombia, nel mese di dicembre spesso sono stati approvati paquetazos economici contro le classi popolari, confidando nella distrazione da festività di gran parte della popolazione. Stavolta non sarà così. La protesta non sembra intenzionata a smobilitare, la dignità dei popoli nemmeno.
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