Latina

La polizia del governo golpista assedia l’ambasciata messicana a La Paz

Crisi diplomatica tra Bolivia e Messico

Sono rifugiati nell’ambasciata numerosi ministri del governo di Evo Morales
8 gennaio 2020
David Lifodi

colpo di stato in Bolivia

Lo scorso 18 dicembre la Comunidad del Caribe (Caricom) ha presentato di fronte all’Osa, l’Organizzazione degli stati americani, una risoluzione in cui invita la Bolivia a rispettare i diritti dei popoli indigeni e a rifiutare la violenza. L’attuale gruppo di potere boliviano aveva cercato, senza esito, di modificare la risoluzione garantendo il suo impegno “per la pace” contro Evo Morales, autoproclamandosi come governo legittimo perché aveva ristabilito l’ordine nel paese andino, ma il gioco sporco degli attuali occupanti del Palacio Quemado ha ottenuto solo pochi voti favorevoli, quelli di alcuni tra i paesi con le presidenze più a destra dell’intero continente americano.

La Bolivia, oltre ad autodichiararsi a favore della propria risoluzione, è stata sostenuta da governi poco credibili, dal Brasile alla Colombia passando per Stati uniti, Ecuador, Paraguay, fino ai rappresentanti venezuelani del golpista Guaidó. In pratica l’Osa, che fin dall’inizio aveva tramato con i cospiratori anti-Morales, avallando pubblicamente tutte le dichiarazioni che parlavano di presunti brogli elettorali per favorire la “transizione democratica” dell’attuale presidenta Jeanine Añez, è stata sconfessata pubblicamente.

Nonostante tutto, però, i golpisti boliviani non sembrano intenzionati a cedere, anche a costo di provocare delle crisi diplomatiche, a partire da quella con il Messico, la cui ambasciata a La Paz è stata sottoposta ad un vero e proprio assedio da parte di circa 150 militari appartenenti al cosiddetto Grupo Antiterrorista, creato poco dopo il colpo di stato su indicazione degli Stati uniti e coordinato dal Ministerio de Gobierno per arrestare tutti coloro che sono coinvolti “in azioni di sedizione e terrorismo”. L’attenzione dei golpisti boliviani verso l’ambasciata messicana è presto spiegata: tra i rifugiati nella sua sede vi sono ben sei ministri dell’ex presidente Morales, Juan Ramón Quintana, Héctor Arce, Javier Zavaleta, Cesar Navarro, Wilma Alanoca e Hugo Moldiz, il viceministro Pedro Damian Dorado e il goveratore di Oruro Víctor Hugo Vásquez, tutti appartenenti al Movimiento al Socialismo.

Dal 10 novembre scorso, il giorno del colpo di stato, la Bolivia si è trasformata sempre più in un luogo di “guerra totale e permanente” secondo le indicazioni degli Stati uniti, che hanno ignorato totalmente sia la denuncia dello stato d’assedio dell’ambasciata messicana a La Paz da parte del presidente Andrés Manuel López Obrador sia la denuncia della Bolivia alla Corte internazionale di giustizia da parte del cancelliere Marcelo Ebrard. Sull’assedio all’ambasciata, iniziato il 23 dicembre, Obrador ha dichiarato che un’azione di questo tipo non l’aveva mai fatta nemmeno il dittatore cileno Pinochet, sollecitando il gobierno de facto boliviano a rispettare il diritto d’asilo. Per tutta risposta Jorge “Tuto” Quiroga, ex presidente della Bolivia, noto per le sue posizioni di estrema destra e adesso nominato “delegato del governo di fronte alla comunità internazionale”, non ha trovato niente di meglio che insultare pesantemente sia Obrador sia Ebrard.

Ancora più provocatorie le dichiarazioni del colonnello Julio Cordero, uno dei comandanti dipartimentali della polizia di La Paz, che ha garantito la costante presenza della polizia intorno all’ambasciata messicana per evitare la fuga di coloro che hanno chiesto asilo, promettendo il loro arresto quanto prima. Ai ministri del presidente Morales sono imputati presunti, e non ben definiti, “atti di sedizione”, mentre a Nicolás Laguna, direttore responsabile di Agetic, l’agenzia digitale del governo boliviano, viene contestata la “frode elettorale”, peraltro tutta da dimostrare. Si trova invece già in Messico Luis Arce Catacora, ministro dell’Economia del governo Morales che potrebbe essere uno dei candidati del Mas in vista delle prossime elezioni presidenziali che i golpisti, almeno finora, hanno promesso che si terranno indicativamente in primavera senza però stabilire una data precisa.

Tuttavia, affrontata l’emergenza di un colpo di stato che ha espresso, da alcuni mesi, uno dei governi più reazionari e fondamentalisti non solo della Bolivia, ma dell’intera America latina, occorrerà riflettere anche sugli errori, sulle contraddizioni e sulle ambiguità del Movimiento al Socialismo e dello stesso Evo Morales, per questo ritengo utile riportare la parte dell'ultimo Mininotiziario “America latina dal basso” di Aldo Zanchetta sulla conflittualità sociale nell’area andina dedicato alla Bolivia:

“Per la Bolivia è necessario un discorso a parte, che molti a sinistra non sono disposti ad accettare. Da giorni leggo decine di articoli, non solo di questi giorni ma anche molti apparsi nei passaggi critici dei 13 anni di governo del MAS, nonché testi più impegnativi. È innegabile che oggi ci troviamo di fronte a un governo illegittimo ma tacere sullo sviamento del governo Morales rispetto alle sue promesse iniziali significa voler rinunciare ad una critica che eviti il ripetersi di grossolani errori. In un comunicato reso pubblico a fine novembre da ricercatori e docenti del postgrado in Scienze dello Sviluppo dell’Università Maggiore di San Andrés (CIDES-UMSA) e <<diretto alla comunità accademica internazionale per spiegare la situazione sociale e politica che vive la Bolivia ed evitare così esitazioni e interpretazioni semplificatrici>>, questi allertano a non fare analisi frettolose.  Ne riportiamo solo un brano, rinviando al testo completo che presto tradurremo per intero:

Manifestiamo la nostra indignazione di fronte alle interpretazioni semplificatrici espresse da colleghi  e istituzioni accademiche dall’estero sugli avvenimenti politici che ancora sono in corso in Bolivia (il comunicato è del 19  novembre). A questo scopo CIDES-UMSA spiega l’attuale congiuntura e il contesto in cui si sono scatenati gli avvenimenti, sostenendo che la crisi statale in Bolivia dopo la rinunzia di Evo Morales si è aggravata per “l’impiego dei beni dello Stato per la repressione” non solo mentre esercitava la funzione di Presidente, ma anche attualmente. (https://tvu.umsa.bo › asset_publisher › content › cide..)

Bastano queste poche righe per porsi molti problemi, che in realtà mi ero già posto, data la particolare attenzione con cui da tempo seguo la situazione in Bolivia, paese che ho visitato per 5 volte e dove ho intrattenuto corrispondenze e anche contatti durante loro visite in Italia con leader sociali o intellettuali del paese.

A fine novembre su richiesta della rivista L’Altrapagina ho scritto l’articolo che riporto in calce, dove ho dovuto comprimere le argomentazioni per rispettare i bytes concessi, il cui contenuto confermo sostanzialmente, anche se ulteriori elementi raccolti mi sollecitano a una riscrittura più ampia e più documentata. Il lavoro di studio in cui mi sono impegnato in questi giorni mi consentirà di pubblicare, in tempi non ristretti (sto rileggendo anche alcuni libri scritti in questi anni da militanti sociali e ricercatori boliviani e non) un dossier documentario, perché ritengo che comprendere meglio quanto accaduto in Bolivia fra gli anni 2000 (guerra dell’acqua di Cochabamba) e 2019 (caduta del “governo del cambiamento”) sia importante ai fini di un affinamento dell’approccio a realtà aventi particolare significato politico anche per noi esterni agli avvenimenti in questo (e altri) paesi.

***       ***       ***

Da L’Altrapagina, numero di dicembre 2019.

Quando questo articolo verrà letto la situazione in Bolivia sarà diversa da quella del momento in cui scrivo. Ora è di <<vera schizofrenia politica. Mentre il governo attuale compie atti per colpire i dirigenti del MAS, i parlamentari di questo partito sia al Senato come nell’Assemblea Legislativa, nominavano nuovi presidenti per la rinuncia dei loro titolari>>. Così il giornalista Montoya[1] su Vientosur del 23.11. È il momento di cercare di porsi le domande giuste e setacciare il diluvio di articoli con il fiuto di Sherlock Holmes alla ricerca dell’informazione corretta. <<Affannarsi ora in un dibattito sul fatto se c’è stato o no un colpo di Stato non ha molto senso. Coloro che lo negano vogliono nascondere l’illegittimità del risultato finale. Coloro che lo affermano vogliono occultare la responsabilità principale del Governo del MAS … Fra l’uno e l’altro, fra golpe no e golpe sì, quello che c’è stato e c’è da queste parti, in Europa, è una disinformazione spaventosa, in buona parte deliberata, su quanto è accaduto in Bolivia>> (https://www.bartolomé clavero.net-bolivia-de-plurinacional...),. A scrivere queste inquietanti parole è Bartolomé Clavero, ex vicepresidente del Foro Permanente delle Nazioni Unite per i Problemi Indigeni.

Si, conoscendo abbastanza la Bolivia per esperienza diretta e frequenza di contatti con persone là residenti, un paio delle quali ora in pericolo, anch’io sono sorpreso a leggere tante descrizioni arbitrarie e parziali. Fui una prima volta in Bolivia negli anni ’70, per interessi archeologici. Poi, già più politicizzato, nel 1993, e di nuovo nel 1997 quando a Vallegrande si ricordò la morte del Che, dove vidi per la prima volta Evo Morales, astro nascente del sindacalismo contadino. Lo ascoltai dialogare con Hugo Chávez al Social Forum di Caracas nel gennaio 2006, alla vigilia di assumere il governo. Infine 9 mesi dopo, a La Paz, all’incontro De la Resistencia al Poder, il giorno dopo un mancato golpe. All’incontro era previsto un suo intervento, che venne rinviato di ora in ora finché a notte ci fu detto che lo avremmo visto la mattina seguente, in una manifestazione pubblica. A Caracas, in una tavola rotonda, ascoltai anche, per la prima volta, Oscar Olivera, già famoso perché leader della guerra dell’acqua di Cochabamba, nel 2000. Gli fu chiesto: <<Se andando al potere, Evo non manterrà gli impegni, cosa farete?>>. Fu lapidaria: <<Lo cacceremo>>. A Cochabamba per la prima volta una potente multinazionale dell’acqua, che aveva imposto condizioni esose tassando anche la raccolta dell’acqua piovana, fu cacciata a furor di popolo, dopo un lungo stato d’assedio e alcuni morti. La Bolivia plebeja era giunta al limite della sopportazione e stava acquistando consapevolezza della propria forza. Tre anni dopo a El Alto scoppiò la guerra del gas, e i morti furono una settantina. Il governo di Sanchez de Losada, ‘el gringo’ -educato negli States parlava a fatica lo spagnolo- dimissionò, e subentrò il suo vice, Carlos Mesa, recente rivale di Morales. Alle elezioni del 2000 Evo, presentatosi, non era arrivato per un pelo al ballottaggio. Ma le due guerre avevano cambiato il paese e nel 2005 venne eletto col 54% dei voti.

Torno al giorno successivo al mancato golpe. Nella piazza le ‘truppe’ di Evo, fatte affluire nella notte dalle province: i minatori di Potosí, i cocaleros del Chapare, dove Evo era politicamente cresciuto, i rappresentanti delle organizzazioni indigene e campesine, in particolare delle cinque che più tardi avrebbero stretto il Patto di Unità di Azione che nei primi anni garantì il difficile percorso del governo. Dal palco Morales e Linera, sorridenti e infiorati, inneggiarono alla nuova Bolivia in costruzione, e gli applausi scrosciarono. Scrivo questo per dire che seguo gli avvenimenti boliviani da  anni lontani.

Il tema politico su cui si era giocata l’elezione era quello del cambio: da una Bolivia soggetta a un’oligarchia legata al capitalismo internazionale a una Bolivia plebeja dove indigeni, contadini, operai fossero finalmente attori della propria storia in uno Stato costituzionalmente Plurinazionale.

Il potere nel mondo indigeno (60% in Bolivia) ha una configurazione particolare, a noi estranea, che Raúl Zibechi, valente giornalista ricercatore, analizza nel libro Disperdere il potere. Esso viene assegnato assemblearmente a chi è ritenuto capace di guidare la realizzazione di obiettivi concordati. Poi tocca a un altro (oggi talora anche le donne). Così il potere circola, per evitare la nascita dei caudillos. È il “comandare obbedendo” indigeno. Per molti degli elettori di Evo questa temporalità era scontata, assieme alla fedeltà al mandato del cambio.

Morales ha governato bene nei primi anni, ‘obbedendo’ al mandato. Poi iniziò a zigzagare, occultandolo però con un’abile retorica, di molto effetto all’estero, meno in patria dove si poteva verificare la pratica. Cominciarono patteggiamenti ambigui con i santacrucegni e si chiuse un occhio sui latifondi dell’oriente. Il divide et impera divenne pratica politica tanto che nel 2011 due delle cinque organizzazioni del Patto ne uscirono conflittualmente. I rapporti con la CIDOB, la confederazione delle organizzazioni indie, si fecero sempre più tesi a causa del crescente estrattivismo che ne devastava i territori e il disboscamento che ampliava la coltivazione della soia, in % sempre più alta transgenica. Per un presidente ‘indio’, che tale non era, non è il massimo, no? Ho seguito con malessere crescente questo cambiamento, segnalandolo nel mio ‘Mininotiziario A.L. dal basso’, e ne dettaglierei i passaggi principali se ne avessi lo spazio. I lettori interessati possono leggerli in un articolo del più autorevole Pablo Solon, che fu molto vicino a Evo fino al 2015 quando, deluso, dimissionò da ambasciatore all’ONU (https://wp.me/P47kgx-UB). Questo, la maggior parte degli articolisti di questi giorni o non lo sa o finge di non saperlo. Uno mi ha scritto: <<Hai perfettamente ragione. Ma ora c’è il golpe!>>. Cioè: la ‘verità’ che ora ci necessita è un’altra. Disattendendo Clavero, vengo al (ai) golpe. C’è stato un golpe? Come no! Anzi due. Forse tre? Se sul Guinness dei primati esistesse la voce golpe, spetterebbe alla Bolivia: 160, dal giorno dell’indipendenza ad ieri. 161 (o  162?) (magari 163) ad oggi? Un passo indietro.

Evo divenne presidente nel 2005 e, come detto, iniziò bene. Degna di memoria la lettera indirizzata ai capi di Stato sudamericani con la proposta per una diversa politica comune. Nel 2008 fronteggiò un tentativo secessionista dell’oriente del paese, capeggiato da Santa  Cruz, città che aveva dato ‘generosa’ ospitalità a gerarchi del reich o ustascia croati in fuga. Ne venne a capo (le sue “truppe” allora erano unite e motivate) varando al contempo la nuova Costituzione (2009). Questa prevedeva al massimo due mandati presidenziali consecutivi, da conteggiare a partire dalla sua entrata in vigore. Venne rieletto nel 2009 e di nuovo nel 2014. La candidatura nel 2019 era off limits, ma il virus del potere (o altro?) aveva penetrato il duo presidenziale. Così nel 2016 si tentò di forzare la Costituzione con un referendum popolare, che fu perso. Il segnale non fu colto e si ricorse a una Corte Suprema già ‘amica’, che emise un sorprendente verdetto: la rielezione “è un diritto umano”, che va oltre la Costituzione. Gli oppositori, ora formata da vecchi nemici ed ex amici, ricorsero all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), che però per bocca del  segretario Almagro, oggi sotto accusa per il golpe contro Evo, riconobbe questo diritto (strano, eh,?), riconfermandolo in una visita a La Paz nel maggio di quest’anno. Di diverso tipo, certo, non militare, ma questo non è un golpe, anzi un autogolpe, come dice Clavero, ancor prima di essere certi se c’è stato o no un broglio nello scrutinio? Non ho ormai spazio per una cronologia dettagliata degli avvenimenti, che sarebbe più importante di molte narrazioni. Sinteticamente: il 3 novembre, tredici giorni dopo le elezioni, i santacrucegni con a capo il caudillo Machado, detto “il macho”, iniziano il loro golpe, innegabile, al quale il giorno 9 si unisce la polizia e il 10, in modo ambiguo, l’Esercito. Questo, secondo alcuni, è il terzo golpe, quello militare. Una matrioska?  Morales e Linera accettano il suggerimento del capo dell’esercito, dimissionano e fuggono (sic) come pure la presidente del senato, causando il vuoto di potere in cui si inserisce illegalmente la seconda vicepresidente del senato, Janina Añez, riconosciuta dai militari. Due dei golpe si ricongiungono, forse erano già uno. Ora siamo alla situazione schizofrenica detta all’inizio, aperta a tutte le soluzioni. Forse saremo chiamati a riparlarne. Per finire, una cosa spiacevole per me, che ho una grande stima della storia personale del premio Nobel Pérez Esquivel. Ma devo dirla, perché la sua ultima dichiarazione pone un problema che va oltre il fatto specifico. La ‘sinistra’ nostrana da tempo ha perso il significato storico della parola e mostra coazione a ripetere analisi obsolete o parziali, con la CIA come drago e i vari Maduro, Lula, Evo, o chi altro, sono i San Giorgio di turno.. Una visione manichea, riduzionista, dove esistono solo il bianco e il nero. Il dubbio che accanto a narrazioni che piacciono esistano analisi che inquietano non la sfiora. Con l’articolo su Il Manifesto, assorbito acriticamente da molti, rappacificati con se stessi (e le proprie analisi) grazie all’autorevolezza dell’autore, essi non hanno più motivo di strizzare le meningi. Esquivel dice una verità, ma a metà: il golpe in Bolivia è un nuovo atto del tenebroso Progetto Condor. Possibile, mi dico, in ogni caso della stessa covata. Però non una parola su Morales, sulle sue colpe, che esce assolto. E invece è necessario continuare a porsi domande, sempre, e a cercare risposte,  senza posa. Una persona di cui Esquivel fu amico, il vescovo Ruiz, quello del Chiapas, soleva ricordare ai suoi interlocutori: <<Se le tue analisi sono vecchie di due anni, gettale. Non servono più>>.

Aldo Zanchetta 27 novembre 2019.

 

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte e l'autore.

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