L’America latina epicentro globale della pandemia
In America latina, all’emergenza sanitaria si è sommata la “pandemia delle disuguaglianze sociali” che ha accresciuto il già forte divario tra minoranze ricchissime e maggioranze che spesso non riescono a garantirsi almeno un pasto al giorno. Nei quartieri popolari delle grandi città sudamericane, da San Paolo a Santiago del Cile, fino a Guayaquil, il numero di decessi dovuti alla diffusione del Covid-19 è più che raddoppiato rispetto alle zone residenziali dove si continua a ritenere il neoliberismo un’ancora di salvezza. È per questo motivo che la vera pandemia, nel continente latinoamericano, è rappresentata dalle politiche neoliberali e dalle profonde ingiustizie sociali, non solo dal corona virus. La sanità privata, a cui può accedere una parte minoritaria della popolazione, gode però di strumenti sconosciuti a quella pubblica, abbandonata a se stessa e distrutta da anni di massicce campagne di privatizzazione, per non parlare della totale assenza di presidi medici adeguati nelle aree rurali, se non fosse per le strutture comunitarie attivate dalle stesse comunità indigene. Proprio per questi motivi, a partire dallo scorso autunno, paesi come Bolivia, Ecuador, Cile e Colombia hanno visto sorgere rabbiosi levantamientos.
In Argentina i contagi sono in crescita soprattutto a seguito del rifiuto di molti proprietari di fabbriche di adottare le misure necessarie per contenere il virus. A raccontarlo è Nahuel González, sindacalista del settore ferroviario che denuncia la crescita dei contagi (e dei morti) tra i ferrovieri, molti dei quali dipendenti di società che hanno esternalizzato il servizio. “O muori di fame o di corona virus”, sottolineano con amarezza i lavoratori, costretti spesso a recarsi sul posto di lavoro per evitare trattenute sul loro salario. César Aguilera, dirigente del Sindicato de trabajadores de la industria del vidrio y afines, evidenzia a sua volta che molte imprese, nonostante le dichiarazioni di facciata sull’isolamento preventivo, hanno colto l’occasione per licenziare i lavoratori.
Anche nella Bolivia della presidente golpista Añez i casi di contagio si sono moltiplicati, i cimiteri improvvisati sono divenuti una triste consuetudine e i morti sono in crescita fino alla regione amazzonica confinante con il Brasile. Nel dipartimento del Beni e nella zona di Santa Cruz si registrano le situazioni più critiche. Nel Beni gran parte delle persone malate non sono state sottoposte al test sierologico, per cui il governo ha buon gioco nello sbandierare che i decessi non sono dovuti alla pandemia e, sempre nello stesso dipartimento, è scoppiato lo scandalo relativo alla corruzione per l’acquisto di ventilatori a prezzi molto più alti del loro valore di mercato. La presidenta Añez e il resto del suo governo finora si sono adoperati soltanto affinché i malati appartenenti all’alta società boliviana siano trasferiti in ospedali affidabili tramite voli di stato, ignorando completamente la gran maggioranza povera della popolazione.
In Brasile, come ormai noto, la situazione è drammatica a causa di una gestione dell’emergenza sanitaria più che disinvolta, all’insegna dello slogan “prima viene l’economia e poi la salute e i diritti delle persone”. Nonostante il più alto numero di contagiati dell’intera America latina, Bolsonaro ha deciso di proseguire sulla strada dell’apertura ad oltranza dell’intero paese, grazie anche alla circolazione di quelle fake news che, in rete e su whatsapp, già gli avevano dato una grossa mano nel vincere le elezioni presidenziali.
Il sistema sanitario brasiliano è ormai arrivato al collasso, ma nonostante tutto nelle megalopoli brasiliane, a partire da Río de Janeiro, le precauzioni attuate sono ben poche. I sostenitori di Bolsonaro insistono inoltre nel chiedere la chiusura del Congresso e della Corte Suprema, come da tempo minaccia di fare il presidente, mentre emerge sempre di più il carattere classista del virus che in Brasile, come in Cile, sta mietendo vittime tra gli strati sociali più poveri, nelle favelas, nei quartieri maggiormente degradati delle periferie, tra le persone anziane e le comunità indigene. Poco più di due settimane fa, proprio in Cile, il ministro Jaime Mañalich Mixi ha rassegnato le sue dimissioni. Il ministro, come del resto il presidente Piñera, si è occupato di tutelare esclusivamente gli interessi dell’oligarchia che entrambi rappresentano. La strategia di Jaime Mañalich Mixi, basata sulla cosiddetta “quarantena dinamica”, applicata solo nelle zone del paese dove si verificavano recrudescenze del focolaio, è fallita miseramente ed oggi il Cile è uno dei paesi con il maggior numero dei contagiati in America latina.
Anche in Ecuador, Perù e Colombia il Covid-19 avanza pericolosamente. L’Ecuador è stato il primo paese latinoamericano a dover far fronte alla pandemia, anch’esso con una sanità pubblica già alle corde ai primi casi di contagio, frutto di uno smantellamento costante del sistema sanitario nazionale. Così si sono rivolti i movimenti sociali a Moreno, il presidente passato armi e bagagli a destra poco dopo esser stato eletto alla guida del paese: “No son números señor Gobierno, somos nosotros que morimos y lo peor es que muchas votamos por Usted, claro que por el otro programa, por el bueno y no por esta masacre a mansalva de las políticas públicas conquistadas desde hace un siglo y ampliadas en la Constitución de Montecristi”.
A lasciare molto perplessi è anche la gestione relativa alla diffusione del corona virus in Messico, dove il presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo) ha chiesto alla popolazione un ultimo sforzo per sconfiggere il Covid-19. Si tratta di un appello quantomeno paradossale in un paese che di certo non vede la luce in fondo al tunnel. Gli attacchi di Amlo ai quotidiani che lo hanno accusato di essere reticente sul numero dei morti a Città del Messico e in altre zone del paese fanno pensare ad una sottovalutazione del problema da parte del presidente. Fa discutere anche la fretta di López Obrador nel voler far ripartire tutte le attività economiche e la strategia governativa fondata sull’idea di sorvolare sulla crescita dei contagi puntando sui ripetuti appelli a mantenere il distanziamento sociale, dando l’idea alla popolazione che per il resto può continuare tranquillamente a condurre la stessa vita di prima.
Anche in Centroamerica la situazione resta molto difficile. In Honduras il governo ha deciso di riaprire alcune zone del paese, soprattutto per venire incontro alle pressioni delle imprese che lo hanno sostenuto, sulla base della diffusione del contagio. Nelle regioni dove la presenza del virus è minore la riapertura sarà maggiore, nelle grandi città come San Pedro Sula e Tegucigalpa, dove il Covid-19 è molto più presente, saranno prese maggiori cautele. Tuttavia, la cosiddetta “apertura intelligente” dell’economia varata dal governo, che fa il paio con la “quarantena dinamica” cilena, non ha preso in considerazione la dinamica di diffusione del virus. Nelle regioni ritenute a più bassa incidenza, spesso sono stati effettuati meno tamponi a causa della mancanza di strumenti adeguati negli ospedali. Inoltre, nonostante il tentativo di imporre la quarantena, molte persone sfidano il divieto ed escono per portare a casa qualcosa da mangiare. Succede a Tegucigalpa, dove gran parte della popolazione vive di ciò che riesce a vendere nel corso della giornata, e nelle maquilas nella zona della Valle de Sula.
Sempre in Honduras, ma anche in Guatemala, sono state acquistate mascherine ad un prezzo 18 volte superiore al loro valore di mercato e sono emersi molteplici casi di corruzione.
Il sito web guatemalteco Nómada ha riportato la notizia che il governo del Guatemala non ha speso un solo dollaro degli aiuti ricevuti dal Banco Centroamericano de Integración Económica per migliorare la sanità pubblica. Quanto a El Salvador, il presidente Nayib Bukele ha rifiutato di rispondere a tutte le domande su come il governo ha impiegato i propri fondi per far fronte all’emergenza sanitaria. In tutto il Triangulo Norte, sono cresciuti a dismisura gli episodi di corruzione legati alla gestione del Covid-19.
L’esempio dei medici cubani, e venezuelani, che dall’America latina all’Italia hanno dato significativo contributo, spesso è passato sotto silenzio. Chissà cosa avrebbero detto i medi di mezzo mondo se la situazione sanitaria più critica fosse stata registrata proprio a Cuba e in Venezuela?
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