Bolivia: sconfitti i golpisti
Jeanine Añez, la presidenta golpista, è stata costretta a riconoscere la vittoria di Luis Arce, per nulla scontata poiché fino al giorno precedente alle presidenziali circolavano voci di un probabile colpo di stato nel caso in cui l’economista fedele a Evo Morales avesse conquistato Palacio Quemado. Secondo quanto riportato dalla Red de Comunicación Popular, sul sito web kaosenlared.net, era già pronto un colpo di stato orchestrato dal Ministero della Difesa con il coinvolgimento di 11 militari vicini all’ultradestra nel caso in cui il Movimiento al Socialismo avesse trionfato. Si trattava, tra gli altri, dei colonnelli Ramiro Eduardo Calderón De La Riva Lazcano, Edwin Iván Suaznabar Ledesma, Saúl Torrico Peredo, Luis Sagredo Torrico e Grober Quiroga Gutiérrez.
Tuttavia, il sostegno ad Arce è stato tale che lo stesso ministro Arturo Murillo, uno dei più fanatici esponenti del golpismo ed ideatore della strategia dei falsos positivos volta ad accusare il Mas di aver promosso una improbabile guerra di guerriglia e di addossare al partito di Evo la responsabilità degli incendi nella Chiquitanía amazzonica, si è dovuto arrendere, almeno per il momento.
Il 24 e 25 settembre scorsi, il comandante delle Forze Armate Sergio Orellana, quello dell’Esercito Rubén Salvatierra e il colonnello Javier Spinoza Daza avevano organizzato una serie di riunioni per decidere il da farsi nel caso in cui Luis Arce avesse vinto. Ebbene, l’economista scelto dal Mas per la sua moderazione al posto candidati più radicali che avrebbero rischiato di spaventare la parte di elettorato non militante ha guadagnato la presidenza con una certa facilità, ma dovrà comunque guardarsi dalle destre, che faranno di tutto per costringere Evo Morales, tuttora rifugiato in Argentina, al processo.
Non a caso, nell’ambito del piano golpista svelato a ridosso delle elezioni, il colonello Oscar Pacello Aguirre era stato incaricato di collocare esplosivi per poi far ricadere la colpa sul Mas, il generale Marco Antonio Bracamonte ed altri avrebbero dovuto mobilitare, come se non ce ne fosse stato bisogno, gli evangelici ed altri loro colleghi si sarebbero dovuti occupare di scatenare le milizie paramilitari dell’Unión Juvenil Cruceñista, ma la destra boliviana, la cui credibilità è pari a zero come del resto quella venezuelana, ha pensato di dividersi tra i moderati o pseudotali che hanno sostenuto Mesa e i duri e puri fedelissimi di Camacho, permettendo così a Luis Arce di evitare un ballottaggio che avrebbe potuto verificarsi se tra il primo e il secondo candidato fosse stato rilevato uno scarto inferiore ai dieci punti percentuali.
Adesso la maggiore difficoltà di Arce sarà quella di governare un paese dove, c’è da scommetterci, le destre tenteranno ancora una volta la strategia della destabilizzazione, già messa in pratica durante tutta la campagna elettorale anche grazie al sostegno del segretario dell’Organizzazione degli stati americani Luis Almagro, il quale ha cercato di nuovo di far passare il successo elettorale del Mas come una frode.
Al tempo stesso, il nuovo presidente boliviano dovrà evitare che il Movimiento al Socialismo ricada negli errori e nelle contraddizioni del passato che hanno permesso alla destra golpista di rovesciare Evo, a partire dall’eccessiva identificazione in una sola persona al comando e dai tentativi, in parte riusciti, di cooptare una parte dei movimenti sociali. Questa è la sfida maggiore, insieme ad una gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 che non ricalchi quella sciagurata di Añez, per un governo che da oggi tornerà nell’orbita dell’Alba, ma che dovrà contare sull’unità dei movimenti sociali indigeni e contadini per far fronte alle bande paramilitari che continueranno ad imperversare nel tentativo di mettere i bastoni tra le ruote a Luis Arce.
Nel frattempo, in attesa dei ministri che nominerà il nuovo presidente e dei suoi primi atti, per la Bolivia india, campesina e popolare si tratta di un primo passo avanti dalle giornate buie del colpo di stato del novembre 2019.
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