Trentotto ore per Lula
Tra la folla, c’è Maria Monteiro Gomes, 66 anni, il berretto con la scritta «Lula» e una croce intorno al collo. «Sono sotto shock», urla mentre le lacrime le scendono lungo le guance. «Il Brasile ha ripulito la sua anima».
Qualche minuto prima, sui maxischermi si vede il socialista Luiz Inácio Lula da Silva arrivare al parlamento. Presta giuramento, canta l’inno nazionale, tiene il suo primo discorso. Per tradizione, il passaggio di consegne ha luogo il primo gennaio. Lo scorso 30 ottobre Lula ha vinto il ballottaggio contro il candidato di estrema destra, Jair Bolsonaro. Non si è trattato di un’elezione qualunque. Nel Paese più grande dell’America Latina, difatti, due schieramenti si fronteggiano senza esclusioni di colpi. La quotidianità politica è contrassegnata da odio e violenza. Il mandato di Bolsonaro ha profondamente cambiato il Brasile. È così che la pensa Gomes: «Da tutti i punti di vista è stata una catastrofe».
Rio de Jainero, 52 ore prima. Nel cuore della metropoli del Pan di zucchero Gomes sale su un pullman. La aspetta un viaggio di oltre mille chilometri, in compagnia di un gruppo di 41 supporter di Lula. Sotto una pioggia torrenziale, il pullman si dirige in direzione nord-ovest. A bordo si distinguono chiaramente più donne che uomini, in molti sono anziani, alcuni da decenni sostengono il Partito dei Lavoratori (PT). Si sentono discorsi di Lula e il jingle della campagna elettorale provenire dagli smartphone. Si canta, si balla, si ride.
Qualche passeggero, però, è nervoso. I sostenitori di Bolsonaro, infatti, hanno annunciato che osteggeranno la cerimonia d’insediamento e attaccheranno i pullman. Quindi l’avviso: non appendere bandiere all’esterno del pullman, niente indumenti rossi, nelle aree di servizio restare calmi.
In pullman verso Brasilia
Gomes si accomoda accanto a suo marito su uno dei sedili posteriori. Perché sostiene Lula? «Ha fatto così tanto per noi poveri». Come Gomes, sono in molti a ripercorrere pieni di nostalgia il periodo dei suoi due mandati tra il 2003 e il 2011. All’epoca, Lula avviò una ridistribuzione, agevolata dal boom delle materie prime. Milioni di brasiliani sfuggirono alla povertà, i neri ebbero accesso alle università, i lavoratori domestici si videro riconoscere una serie di diritti.
Nel 2011 Lula lasciò l’incarico con il consenso record dell’87 per cento. L’oggi 77enne Lula commuove anche per la sua storia personale: settimo figlio di una famiglia poverissima, è cresciuto nell’arido e affamato entroterra del Nordest. All’età di sette anni, la sua famiglia si trasferì nel circondario industriale della megalopoli di San Paolo. Qui il loquace Lula riuscì ad affermarsi come dirigente sindacale, all’inizio degli anni 80 fu tra i fondatori del Partito dei Lavoratori (PT).
Così come Lula, anche Gomes proviene dal povero Nordest brasiliano. Nel 1977, durante la dittatura militare, fuggì dalla miseria della sua terra natale e arrivò a Rio de Janeiro. Lavorò sodo come donna delle pulizie e crebbe tre figli in una favela. Ancora oggi vive nella sua «comunidade». Adesso ha sei nipoti e un pronipote.
La spumeggiante signora è un’attivista fino al midollo. Durante la campagna elettorale, così racconta, è rimasta in piedi per 24 ore di fila, ha distribuito volantini e discusso a lungo. E ogni giorno ha pregato per Lula. Nemmeno per un secondo ha dubitato di voler andare all’insediamento.
Tuttavia si rivela più complicato del previsto. Dopo alcune ore di viaggio, il pullman si ferma nel bel mezzo dell’autostrada. Gli autisti provano invano a serrare qualche bullone del motore: danno irreparabile. Pausa forzata in mezzo al nulla. «Saranno stati sicuramente i bolsonaristi a manomettere il nostro pullman», scherza un’attivista. Con dei taxi approdano in un soporifero rifugio per camionisti, a notte fonda i naufraghi vengono ospitati in un hotel economico.
Il giorno seguente un altro bus li attende davanti all’alloggio: modello vecchiotto, scarsa libertà di movimento, toilette guasta. Poco importa, la cosa principale è proseguire. Nessuno vuole perdersi il «giorno storico» a Brasilia, neppure Gomes. «Con l’aiuto di Dio giungeremo a destinazione». E in effetti: dopo 38 ore il pullman varca il confine della città di fondazione di Brasilia.
Tendopoli e stadio di calcio, tutti gremiti di fan di Lula
Come il gruppo di Rio de Janeiro, carovane di pullman arrivano da tutto il Paese per assistere all’insediamento. Molti sostenitori di Lula non possono permettersi un biglietto aereo, meno che mai una costosa camera d’albergo. E così gli attivisti negli spazi aperti allestiscono delle tendopoli, decine di migliaia di persone trovano sistemazione dentro lo stadio. La gigantesca struttura di cemento fu costruita per i mondiali di calcio 2014, da allora è rimasta perlopiù vuota.
I movimenti sociali hanno avuto un ruolo importante nell’affermazione elettorale di Lula. Eppure, nel corso dei suoi mandati, non c’è dubbio che abbia sollevato critiche, anche tra le fila della sinistra. Fece costruire dighe di sbarramento che distrussero i territori indigeni, attrasse nel Paese mega-eventi oggetti di controversia, collaborò col capitalismo finanziario. In campagna elettorale si è evitato di muovere critiche troppe aspre, il motto era: «Prima battiamo Bolsonaro, poi si vedrà».
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Più donne e più neri: il governo di Lula da Silva
In campagna elettorale Lula da Silva ha promesso di formare un governo che avrebbe rispecchiato la composizione variegata della società brasiliana. In effetti mai prima d’ora ci sono state così tante donne, rappresentate da ben otto esponenti del governo. D’altra parte, Lula ha aumentato il numero dei ministeri portandolo da 23 a 37. Otto ministri non sono bianchi. Questa ripartizione, ciononostante, continua a non corrispondere alla struttura della popolazione brasiliana, costituita per il 53 per cento da neri.
Anche conservatori
Per vincere il ballottaggio contro Bolsonaro, Lula ha dato vita a un’ampia coalizione insieme ai partiti conservatori. Nove ministri andranno ai partner di coalizione. Nel complesso, però, in molti posti chiave sono riusciti a imporsi fedelissimi di Lula e politici con un profilo di sinistra. Eccone sei:
Fernando Haddad è a capo del ministero delle Finanze. L’esponente del Partito dei Lavoratori è stato sindaco della megalopoli di San Paolo. Nel 2018 ha sostituito Lula nella campagna per le presidenziali, uscendo però sconfitto dalla sfida con Bolsonaro.
Sônia Guajajara guiderà il nuovo ministero dei Popoli indigeni. L’attivista del partito di sinistra PSOL proviene dallo Stato federato settentrionale del Maranhão ed è uno dei volti più noti della resistenza indigena in America Latina.
Simone Tebet dirige il ministero della Pianificazione. Ha fatto la campagna elettorale per il partito di centro-destra MDB e nella prima tornata si è piazzata al terzo posto con un netto distacco. Alla vigilia del ballottaggio ha dichiarato il suo sostegno per Lula.
Silvio Almeida è il ministro dei Diritti umani. Il filosofo e avvocato di colore è considerato uno dei più importanti intellettuali del Paese. Il suo libro Racismo estructural è ritenuto uno dei classici sul razzismo nel Paese sudamericano.
Marina Silva è la ministra dell’Ambiente. La politica e nota ambientalista originaria dell’Amazzonia già una volta ha ricoperto tale carica in un governo Lula, ma rassegnò le dimissioni dopo che l’allora presidente ebbe imposto dei progetti controversi contro la sua volontà.
Anielle Franco è il nome della nuova ministra dell’Uguaglianza razziale. La 37enne è giornalista e attivista. Sua sorella Marielle Franco è stata consigliera comunale per il PSOL a Rio de Janeiro, dove fu assassinata nel 2018. (taz)
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Gli attivisti spiegano di voler seguire il nuovo governo con spirito critico. Quest’atteggiamento potrebbe sfociare in un dilemma: critiche troppo dure potrebbero andare a vantaggio delle forze di destra, senza critiche si vanificherebbero importanti trasformazioni. I movimenti vanno ancora trovando il loro ruolo. A Brasilia, però, non sono arrivati solo i classici attivisti e gli iscritti al Partito dei Lavoratori (PT). In molti vogliono solo festeggiare la fine del governo Bolsonaro.
Per molte persone, gli scorsi quattro anni sono stati traumatici. Bolsonaro ha fatto regredire il Paese in molti ambiti. La sua indifferenza rispetto alla pandemia ha gettato il Brasile nel caos. Per via della sua politica di deforestazione in Amazzonia, all’estero il Paese è visto come un paria. L’economia arranca. Bolsonaro ha instaurato una cultura dell’odio e compromesso le norme democratiche. Alle elezioni tutto ciò gli si è ritorto contro.
Al suo seguito, tuttavia, l’esponente della estrema destra continua ad avere una base di fedeli. Da settimane i suoi sostenitori scendono in strada per protestare contro «elezioni truccate». Similmente a quanto è avvenuto negli Usa, imbastiscono sconclusionate teorie complottiste su un sistema cupo ed élite di sinistra che con tutti i mezzi hanno spodestato il loro leale presidente. Molti vogliono resistere – qualunque cosa accada.
Tuttavia il loro idolo li ha abbandonati. In un videomessaggio Bolsonaro ha timidamente criticato le proteste dei suoi fan e per la prima volta ha ammesso la sconfitta elettorale. Dopodiché, nel suo tipico stile, ha affermato: «Abbiamo perso una battaglia, ma non perderemo la guerra».
Il 30 dicembre da Brasilia è decollato un aereo militare. A bordo: Jair Bolsonaro. Il giorno seguente è stato avvistato in Florida, attorniato da sostenitori. Per aver lasciato il Paese, da alcuni fan è stato accusato di tradimento, mentre altri hanno proseguito i festeggiamenti. Sulle ragioni del viaggio le speculazioni si sprecano. Il motivo più probabile è che voglia sottrarsi a un processo. Sono in corso diverse indagini preliminari. Stando a fonti giornalistiche, già a breve potrebbe essere emesso un mandato d’arresto.
Già alle prime ore dell’alba del primo gennaio in migliaia si riuniscono nel futuristico quartiere governativo di Brasilia. Braccianti agricoli con la pelle bruciata dal sole, indigeni in abiti tradizionali, ultras di calcio tatuati da capo a piedi. Della musica risuona da un gigantesco palco, venditori improvvisati decantano le magliette con il ritratto di Lula. Nel mezzo del centro del potere del Brasile si respira aria di festival.
Sulla piazza il sole picchia senza pietà, i partecipanti cercano refrigerio all’ombra dei pochi alberi presenti. In molti si portano dietro gli strascichi del lungo viaggio in pullman, alcuni anche quelli della festa dell’ultimo dell’anno del giorno precedente. Le persone svengono come mosche, il personale medico interviene costantemente.
Un tour trionfale per Lula
Dopo essere stato a messa, una limousine scoperta conduce Lula verso piazza dei Tre poteri. È un tour trionfale, in migliaia lo acclamano. Per la verità, Lula avrebbe dovuto spostarsi a bordo di un veicolo blindato, protetto da vetri antiproiettili, sulla questione sicurezza si è discusso a lungo in precedenza. Ma non c’è stato modo di convincere il tribuno del popolo. Qualche giorno prima dell’insediamento, la polizia ha arrestato un uomo che avrebbe pianificato attentati dinamitardi. Sui social i fan di Bolsonaro hanno annunciato di voler sabotare la cerimonia. Salvo poche eccezioni, alla fine, però, si è svolto tutto senza violenza.
Lula dà vita proprio alle scene cui voleva assistere. Masse festeggianti, strette di mano con prestigiosi leader mondiali, tra questi anche il presidente della Repubblica federale tedesca, Frank-Walter Steinmeier. Eppure, in separata sede alcuni supporter sostengono che si aspettavano ancora più gente.
Poi, nel tardo pomeriggio, un momento particolarmente emozionante: Lula sale la rampa del palazzo presidenziale insieme al capo 93enne del popolo indigeno Kayapò, Raoni. Di regola il presidente in carica consegna la fascia presidenziale. Bolsonaro, però, è in Florida. Motivo per cui questa volta è diverso. A consegnarla sono alcuni cittadini che rappresentano uno spaccato di questa nazione variopinta: un ragazzo dei sobborghi, un netturbino di colore, un disabile. Il messaggio è chiaro: dopo quattro anni, in Brasile soffia un vento nuovo.
A un certo punto, dagli occhi di Lula scorrono giù lacrime. Anche durante il suo discorso si avverte molta emozione. La sua volontà è riconciliare il Brasile, essere il presidente di tutti. E il primo giorno firma già diversi decreti volti a contrastare la distruzione dell’ambiente. Il Fondo Amazzonia finalizzato a uno sviluppo sostenibile nella foresta pluviale viene riattivato, e la Germania contribuisce con 35 milioni di euro. Il possesso di armi subisce forti restrizioni. È evidente che Lula abbia molte cose in cantiere. Ma non avrà vita facile.
Il bolsonarismo non è scomparso
Su Lula si sta per abbattere un’opposizione violenta. Il suo partito da molti è visto come la quintessenza della corruzione e del malgoverno. Malgrado la sua risicata affermazione elettorale, la destra in Brasile continuerà ad avere un ruolo centrale. Alla camera dei deputati il partito di Bolsonaro ha il gruppo parlamentare più numeroso, i maggiori tre Stati federati sono governati da suoi fedelissimi. Il bolsonarismo è venuto per restare. E in molti settori Bolsonaro ha messo in moto processi che difficilmente potranno essere invertiti. Lula sarà costretto a fare molte concessioni ai suoi partner conservatori e in un parlamento per tradizione fortemente frammentato dovrà battersi strenuamente per trovare di volta in volta una maggioranza.
Oltre a ciò: i tempi d’oro dei suoi primi mandati sono andati, il Brasile è cambiato. Sul versante economico il Paese è in affanno, gli schieramenti si sono irrigiditi, la società è spaccata. La frattura attraversa famiglie, amicizie, relazioni. Una delle figlie di Gomes, a quanto racconta, a un certo punto ha aderito a una chiesa evangelica ultraconservatrice. Da quel momento sostiene Bolsonaro. Il loro rapporto è molto complicato.
Che Lula sia riuscito a tornare alla guida del Brasile, è una storia che ha dell’incredibile. Non è passato molto tempo da quando era rinchiuso in prigione, un nuovo mandato da presidente era senz’altro impensabile. Nel 2017 è stato condannato per corruzione e riciclaggio. La sentenza si basò su indizi, il pubblico ministero non riuscì a fornire delle prove. E tuttavia finì in carcere – spianando la strada a Bolsonaro.
Ciononostante, la ripetitiva storia brasiliana ha preso altre pieghe: nel 2019, dopo 580 giorni trascorsi dietro le sbarre, è tornato in libertà e nel marzo del 2021 tutte le sentenze contro di lui sono state annullate. Grazie a ciò, l’importanza della figura di Lula agli occhi dei suoi fedeli sostenitori è andata sempre più aumentando. Domenica a Brasilia c’è chi lo paragona a Nelson Mandela, a superman oppure a Gesù Cristo. In Brasile il carisma è più importante di un programma elettorale convincente. Lula riesce a entusiasmare le masse. Le sue abilità retoriche sono leggendarie, il suo charme commuove, la sua storia commuove. È così che, a detta di Gomes, ha conquistato anche il suo cuore.
Il suo sogno più grande è poter conoscere Lula di persona. Una foto con «il suo presidente», questo è tutto. È ottimista che presto o tardi accadrà. «Chissà che faccia un salto nella nostra favela».
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