Guatemala ed Ecuador: un voto di speranza
Bernardo Arévalo è il nuovo presidente del Guatemala: con quasi il 59% dei consensi il candidato di Semilla ha sconfitto ampiamente Sandra Torres (Unidad Nacional de la Esperanza), fermatasi al 36% dei voti.
In Ecuador, invece, il 15 ottobre, si terrà il ballottaggio tra la correista Luisa González (Revolución Ciudadana) e Daniel Noboa (Alianza Democrática Nacional), figlio dell’imprenditore del settore bananero Àlvaro Noboa. Quest’ultimo ha ottenuto circa il 23% delle preferenze, quasi dieci punti in meno rispetto alla prima candidata donna alla presidenza di Revolución Ciudadana.
In entrambi i paesi si è votato in un clima di forte tensione e in un contesto piuttosto complesso in cui le categorie politiche classiche, destra/sinistra, hanno contato solo fino ad un certo punto.
In Guatemala il successo di Arévalo potrebbe rappresentare, anche se il condizionale è d’obbligo, un timido segnale di cambiamento per questo martoriato paese.
Il Pacto de Corruptos ha cercato in ogni modo di estrometterlo dalla campagna elettorale giocando sporco, come del resto ha fatto la sua sfidante Sandra Torres, una volta di idee vagamente socialdemocratiche, almeno fin quando il marito, Colom, aveva conquistato la presidenza del paese (2008-2012), per poi passare a posizioni decisamente reazionarie, tanto da strizzare più volte l’occhio anche ad Avemilgua, l’associazione dei militari veterani del conflitto armato che, tra il 1960 e il 1996, si resero colpevoli del genocidio degli indigeni maya.
Al tempo stesso, per quanto possa sembrare paradossale, dietro ad Arévalo potrebbe esserci stato il beneplacito Usa, che lo hanno visto come un candidato presentabile e adesso, probabilmente, cercheranno di condizionare le sue prossime mosse. William Popp, ambasciatore statunitense in Guatemala, si è spinto ben oltre gli auguri di rito al nuovo presidente, invitandolo a collaborare insieme e le tematiche a cui gli Stati Uniti sono interessate difficilmente coincideranno con i diritti delle comunità indigene e dei movimenti sociali, basti pensare all’estrattivismo minerario.
Eppure l’elezione di Bernardo Arévalo, figlio di Juan José Arévalo, primo presidente democraticamente eletto nella storia del Guatemala nel periodo 1945-1951, autorizza a credere in qualche cambiamento dal punto di vista sociale, soprattutto se paragonato a Sandra Torres, che ha cercato di mobilitare anche il voto evangelico, ormai sempre più determinante nelle elezioni centro e latinoamericane.
La ex primera dama di Colom, passata in pochi anni da posizioni impegnate nel mondo del welfare e della solidarietà a ideali sempre più vicini alla destra, tanto da opporsi con forza anche al ritorno della Comisión Internacional contra la Impunidad (Cicig), letteralmente cacciata dal paese da Jimmy Morales (Fronte Convergenza Nazionale, estrema destra), uno dei peggiori presidenti che il Guatemala abbia mai avuto, nel 2019 era stata alcuni mesi in carcere per il finanziamento illegale del suo partito.
A sostenere Arévalo sono stati, in particolare i giovani, il movimento studentesco e la classe media, da cui era nato, nel 2015, il movimento Semilla in occasione delle mobilitazioni contro la corruzione. La campagna elettorale si è sviluppata, principalmente, sui canali social, dove Arévalo è stato dipinto, in maniera del tutto impropria come “comunista”. La sua vittoria, secondo Sandra Torres, avrebbe trasformato il Guatemala in una nuova Cuba. E ancora, Arévalo è stato bollato come un pericolo pubblico per aver essersi schierato a favore dell’aborto e dei diritti delle coppie omosessuali.
Arévalo avrà il difficile compito di risollevare uno stato tecnicamente fallito, saccheggiato per decenni e spolpato soprattutto dalle ultime amministrazioni che hanno svenduto tutte le ricchezze del paese alle multinazionali, e in cui la denutrizione ha raggiunto livelli preoccupati soprattutto per i bambini e gli adolescenti, nonostante il Guatemala sia il paese più ricco di risorse naturali del Centroamerica.
Il percorso del nuovo presidente non sarà facile, stretto tra il cambiamento che si aspettano i suoi elettori ed una casta politica che cercherà di farlo cadere alla prima occasione. È già un miracolo che sia riuscito a farcela, dopo mesi in cui, dai pulpiti evangelici, è stato definito “figlio del demonio” per aver sostenuto l’Agenda 2030, considerata da molti pastori come un attacco alla famiglia tradizionale e alla libertà di culto.
González resta la favorita nella corsa a Palacio de Carondelet, ma in Ecuador la situazione sembra essere ogni giorno di più fuori controllo. Pochi giorni dopo Villavicencio, a cadere sotto i colpi della criminalità organizzata, il 15 agosto scorso, era stato Pedro Briones, dirigente politico di Revolución Ciudadana. Più volte Luisa González ha parlato del suo paese come di uno stato fallito e ormai nelle mani delle mafie.
Ritenuto, attualmente, come il paese più violento dell’America latina, tanto da far dichiarare a Fernando Villavicencio, pochi giorni prima di essere ucciso, che era obbligatorio scegliere se schierarsi “por la patria o por la mafia”, nel mezzo di una crisi politica portata alle sue estreme conseguenze dall’inettitudine dell’attuale presidente Guillermo Lasso, Luisa González cercherà di conquistare la presidenza per indirizzare di nuovo il paese sui binari della plurinazionalità e dell’interculturalità nonostante la freddezza delle organizzazioni indigene, di parte del movimento femminista e della sinistra sociale. Dietro di lei, a sorpresa, Àlvaro Noboa, 35 anni, rampollo della borghesia guayaquileña che ha già promesso di potenziare l’estrattivismo minerario e utilizzare il pugno duro contro la criminalità organizzata. Lo stesso Noboa, una settimana fa, avrebbe scampato un attentato. Molto distanziati gli altri candidati, quali il miliardario Jan Topic (14%), Otto Sonnenholzner, di estrema destra (7%) e l’indigeno Yaku Pérez (4%).
In attesa del ballottaggio, rappresenta un aspetto positivo il voto che ha fermato le trivellazioni petrolifere all’interno del Parque Nacional Yasuní, peraltro autorizzate all’epoca della presidenza di Rafael Correa. Un'ampia maggioranza di elettori, il 59%, si è schierato a difesa dell’asse ITT nell’Amazzonia ecuadoriana. Non si tratta dell’unico successo delle comunità indigene e dei collettivi ambientalisti.
Oltre alle presidenziali e al referendum sulle trivellazioni petrolifere, nel distretto metropolitano di Quito si votava anche per il referendum sull’estrattivismo minerario nel Chocó Andino e, anche in questo caso, addirittura con oltre il 68% dei voti, gli elettori si sono espressi contro la miniera.
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