Latina

La scarcerazione dell’ex presidente sancisce la saldatura tra fujimorismo e regime di Dina Boluarte

Perù: l'indulto a Fujimori è un insulto

Il disfacimento dello stato peruviano risiede nel dilagare della corruzione, che ha permesso all’estrema destra di impadronirsi definitivamente del paese.
22 gennaio 2024
David Lifodi

Perù: l'indulto a Fujimori è un insulto

Lo scorso dicembre, l’ex presidente del Perù Alberto “el Chino” Fujimori ha goduto dell’indulto della Corte costituzionale, che gli ha tolto i 25 anni di condanna per i massacri di Barrios Altos e La Cantuta scarcerandolo così dopo soli 16 anni di detenzione.

La strage nel quartiere di Barrios Altos, nei pressi di Lima, pianificata da Fujimori e Valdimiro Montesinos, avvenne il 3 novembre 1991 ad opera dal Grupo Colina, un gruppo paramilitare che sparò all’impazzata uccidendo 15 persone ritenute appartenenti Sendero Luminoso. In circostanze analoghe, il 18 luglio 1992, un docente universitario e nove studenti dell’Universidad Nacional de Educación Enrique Guzmán y Valle furono sequestrati e assassinati sempre dai paras del Grupo Colina, i cui membri si erano infiltrati nell’ateneo e, grazie ad alcuni delatori, li identificarono e uccisero perché considerati vicini alla guerriglia senderista.

Ritenuto il mandante dei due eccidi e responsabile, ancora insieme a Montesinos, dell’operazione di teste di cuoio e polizia che, il 22 aprile 1997, uccise a sangue freddo tutti i membri del commando del Mrta – Movimiento Revolucionario Tupac Amaru che, il 18 dicembre 1996 aveva occupato l’ambasciata giapponese a Lima, sequestrando centinaia di persone, ma senza far loro del male, Fujimori ha scontato una parte minima della pena per i «crimini contro l’umanità secondo il diritto penale internazionale» relativi ai casi di Las Barrios e La Cantuta.

Si è trattato dell’ennesimo affronto ai danni di un intero paese ancora ostaggio di Dina Boluarte, prima presidente donna nella storia del paese ed abile ad approfittare, il 7 dicembre 2022, del maldestro autogolpe di Pedro Castillo, con il sostegno iniziale di tutta l’oligarchia peruviana che non poteva sopportare l’idea di vedere un maestro indigeno rurale alla guida del Perù.

Da quel momento, la presidenza di Boluarte si è caratterizzata per una costante repressione scatenata soprattutto contro la popolazione indigena, da oltre un anno quasi quotidianamente nelle piazze e nelle strade delle principali città del paese per chiedere le sue dimissioni. Il coinvolgimento della procuratrice generale Patricia Benavides, vicina a Boluarte, nel cosiddetto “indulto umanitario” concesso a “el Chino”, ha sancito la definitiva alleanza tra la presidenta e il fujimorismo, ma ha provocato anche l’intervento della Corte interamericana dei diritti umani (Cidh), che ha stigmatizzato con forza il rilascio di Fujimori.

La stessa Cidh ha concesso al Tribunale Costituzionale tre mesi di tempo per ritirare l’indulto concesso a Fujimori già nel 2017 dall’allora presidente Pedro Pablo Kuzsynscki. Anche in quell’occasione, l’intervento della Corte interamericana dei diritti umani aveva portato la Corte Suprema ad annullare la misura di indulto a seguito delle accuse che avevano coinvolto proprio Kuzsynscki, reo di aver ottenuto, in cambio, l’appoggio del partito di Kejko Fujimori, figlia di “el Chino”, a fronte di una mozione di impeachment.

La Coordinadora Nacional Unitaria de Lucha, fin dalla presa del potere da parte di Boluarte, ha ribadito la “putrefazione totale di uno Stato dove i governanti utilizzano le istituzioni esclusivamente per arricchirsi e favorire amici e familiari”, ed ha accusato la presidenta di cinismo in relazione agli oltre 49 morti vittime della repressione della polizia, soprattutto nei primi mesi delle proteste di piazza: è proprio in questo contesto che Dina Boluarte è stata significativamente denominata “Balearte” per non essersi fatta alcun problema nel dare alla polizia l’ordine di sparare sui manifestanti.

Probabilmente, il simbolo dello sfacelo e del disfacimento dello stato peruviano risiede in quello che è accaduto fuori dal carcere di Barbadillo, nella zona nordest di Lima: da un lato, i sostenitori di Fujimori, i quali attendevano la sua scarcerazione al suono della tecnocumbia denominata “Ritmo del Chino”, utilizzata come jingle dall’ex presidente di origine giapponese che, all’inizio del 2000, tentò di farsi rieleggere di nuovo, dall’altro i familiari dei morti nel massacro di La Cantuta del 1992, determinati nel gridare, di fronte al Palazzo di giustizia, “Indulto es insulto”.

Dalla dittatura fujimorista a quella di Boluarte nulla è cambiato in un paese dove la corruzione è stata progressivamente istituzionalizzata, soprattutto grazie alle manovre dell’ultradestra e di un modello neoliberista che ha ampiamente beneficiato della Costituzione del 1993, costruita ad immagine e somiglianza del fujimorismo. L’ estrema destra ha dato vita ad una vasta rete di corruzione per impadronirsi dello Stato e non è un caso che gli ultimi sei presidenti peruviani siano stati tutti coinvolti in riciclaggio di denaro sporco e altri traffici simili, mentre a contrastare tutto ciò sono rimaste esclusivamente le organizzazioni popolari.

Sono in molti a pensare che difficilmente il governo arriverà a fine mandato, nel 2026, ma all’orizzonte non si vede alcuna prospettiva di reale cambiamento.

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