Perù: il fiume Marañón soggetto di diritti
Il verdetto storico, che riconosce il fiume come parte del popolo indigeno kukama, è arrivato a seguito di una durissima battaglia legale iniziata, nel 2021, dalla Federación de Mujeres Indígenas Huaynakana Kamatahuara Kana.
Il Marañón è stato vittima, nel corso degli anni, di un costante inquinamento, dovuto sia all’estrattivismo minerario sia alle multinazionali petrolifere. Come riportato da Dominique Galeano nell’’articolo “Ecología Social. Perú reconoció a un río como sujeto de derechos: el caso del Marañón y la lucha de mujeres indígenas”, il fiume nasce dalle montagne innevate della Cordigliera delle Ande, tra laghi e ghiacciai, a circa 4.600 metri di altezza e, dopo aver percorso 1.700 chilometri e 9 dipartimenti del paese, arriva ad immettersi nel fiume Amazonas, in piena foresta amazzonica.
Proprio dal dipartimento di Loreto, l’ultimo toccato dal Marañón, è arrivata la sentenza che obbliga le imprese petrolifere ed estrattiviste a risanare il fiume e 15 suoi affluenti per i prossimi 30 anni, dopo averlo utilizzato alla stregua di una discarica, obbligando gli indios a non poter più contare su attività come la pesca a causa del suo crescente inquinamento.
La caparbietà delle donne kukama, che hanno dimostrato come la crescente contaminazione del fiume impattasse sulla salute della stessa comunità, causando malattie della pelle, cancro e numerosi casi di aborti spontanei, è servita per denunciare Petroperú, i ministeri di Ambiente ed Energia, l’Autorità nazionale dell’acqua e il governo dipartimentale di Loreto.
Dal 1997 si sono verificati almeno 60 disastri ecologici che hanno finito per impattare sul Marañón, soprattutto a causa della statale Petroperú, che non si è mai interessata di manutenere le tubature all’interno delle quali il greggio viene trasferito dall’Amazzonia alla costa peruviana. Le donne indigene, nel corso delle udienze iniziate nel 2023, sono riuscite a dimostrare che la cosmovisione india si identifica nel fiume, dove abitano gli spiriti che hanno il compito di alimentare i pesci, principale forma di sostentamento della comunità kukama.
“Nuestra lucha es para que las nuevas generaciones tengan agua libre de contaminación, salud y una buena vida”, hanno spiegato le donne kukama, evidenziando come l’inquinamento provocato dall’Oleoducto Norperuano abbia messo a rischio l’esistenza dei 56 popoli indigeni amazzonici residenti, principalmente, nel dipartimento di Loreto (tra i più poveri del paese), nel nordest del Perù, in piena Amazzonia.
Inoltre, la sentenza, fortemente contestata sia da Petroperú sia dal ministero dell’Ambiente, riconosce le comunità indigene come guardiane del Marañón, con grande soddisfazione delle organizzazioni della società civile che hanno accompagnato la battaglia della Federación de Mujeres Indígenas Huaynakana Kamatahuara Kana, tra cui l’ Instituto de Defensa Legal, a cui appartengono gli avvocati che hanno tutelato i diritti degli indios, il Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica e International Rivers.
È stato proprio grazie al lavoro svolto dagli avvocati dell’Instituto de Defensa Legal che è stato possibile il riconoscimento del Marañón come un “essere vivo con diritti”, dotato dell’acqua come bene comune e non come un affare di lucro, con buona pace di uno Stato che ha sempre permesso l’inquinamento del fiume.
Inoltre, la sentenza che tutela il Marañón non è soltanto simbolica poiché, oltre al riconoscimento del fiume come soggetto di diritto, nel caso in cui, successivamente, si legiferi sul fiume non rispettandone i principi ambientali, è possibile opporre un vizio di nullità. In questo senso va anche il richiamo allo Stato peruviano affinché, nel caso in cui siano programmate attività minerarie o petrolifere, sarà necessario consultare i popoli indigeni e la società civile.
Da ora in poi, non solo il Marañón non sarà più un fiume indifeso, ma, insieme ai suoi affluenti, dovrà essere tutelato legalmente dallo Stato che, a sua volta, dovrà occuparsi di mantenere un ecosistema sostenibile e il suo diritto alla biodiversità.
Per una volta, i diritti della natura hanno vinto su quelli del profitto.
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