El Salvador: bukelismo sinonimo di repressione
Come ormai risulta evidente, in El Salvador le politiche securitarie vanno di pari passo con forme di repressione e criminalizzazione sempre più soffocanti, ma apprezzate da buona parte dei governi neoliberisti della regione centro e sudamericana, costretti a fare i conti con la sempre maggior crescita del crimine organizzato.
Il livello di controllo della società è tale che Sergio Arauz, presidente di Apes (Asociación de Periodistas de El Salvador), in un articolo pubblicato il 29 gennaio scorso su El Faro, una delle maggiori, prestigiose e rigorose testate di controinformazione non solo del piccolo paese centroamericano, ma dell’intera America latina, ha accusato il governo di Bukele di aumentare quotidianamente il suo livello di aggressività contro la stampa. Scrive Arauz: «El Salvador, che si professa come uno dei paesi più sicuri, è lo stesso in cui polizia e militari hanno ormai sdoganato sia gli arresti arbitrari dei giornalisti sia la contemporanea requisizione dei loro strumenti di lavoro, a partire da telefoni e macchine fotografiche, dai quali le forze dell’ordine eliminano arbitrariamente tutto il materiale ritenuto scottante.
Nel solo 2024 sono state 466 le denunce di aggressioni contro i giornalisti provenienti dalla sfera pubblica e dalla Policía Nacional Civil, ma non si tratta dell’unica forma di repressione, anzi. Solo per rimanere in Centroamerica, ad esprimere grande ammirazione per il presidente salvadoregno è stato anche il panamense José Raúl Mulino, il cui piano di sicurezza, denominato “Panamá 3.0”, ricalca sotto molti aspetti quello di Bukele. Scendendo in Sudamerica, il cosiddetto “presidente millennial” gode della stima del suo quasi coetaneo Daniel Noboa, il quale, fino al giorno precedente alle presidenziali del 9 febbraio scorso ha promesso, a fini elettorali, la costruzione di penitenziari di massima sicurezza in tutto il paese, spingendosi fino a volerne edificare uno in piena Amazzonia ecuadoriana, e dell’argentina Patricia Bullrich, titolare del dicastero della Sicurezza in Argentina e nota per le sue pratiche repressive che già in epoca macrista l’avevano fatta conoscere in negativo, tra le altre cose, per il suo coinvolgimento nella morte dell’attivista Santiago Maldonado, ucciso nell’agosto 2017 a seguito di un’operazione di sgombero della polizia, ordinata proprio da Bullrich, contro una manifestazione della comunità mapuche Pu Lof nella provincia argentina di Chubut (dipartimento di Cushamen), repressa con violenza dalla polizia.
Il modello Bukele, definito anche “bukelizzazione”, individua nei megapenitenziari quali il Centro de Confinamiento del Terrorismo (Cecot) una delle misure maggiormente apprezzate, insieme all’applicazione sistematica dello stato d’assedio, non solo per sconfiggere la criminalità, ma per trasformare interi paesi in luoghi di controllo dove, alla fine, vengono incarcerati molti innocenti o comunque persone colpevoli di reati di poco conto.
In un paese come El Salvador, dove i tassi di violenza hanno raggiunto livelli altissimi, Bukele sapeva benissimo che promettere la “mano dura” gli avrebbe portato enorme consenso dal punto di vista elettorale. Oggi, in El Salvador, ci sono più di mille detenuti ogni centomila abitanti e la stessa Corte interamericana per i diritti umani ha invitato Bukele ad evitare il ricorso allo stato d’assedio indiscriminato, già proclamato per ben 34 volte nell’anno appena trascorso.
L’altra faccia delle carcerazioni di massa riguarda il caos in cui è piombata la giustizia. Sono sempre più frequenti processi collettivi, anche con centinaia di persone, a scapito dei principi del garantismo e dei diritti degli stessi detenuti. Espulso dal Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (Fmln), dove militava all’epoca in cui era stato eletto sindaco della capitale San Salvador (2015-2018), Bukele e il suo governo si vanno sempre più configurando come una “dittatura cool”, non a caso ha preso spunto dalle operazioni contro le pandillas di due dei suoi predecessori, entrambi appartenenti all’estrema destra arenera Francisco Flores e Elías Saca, denominate significativamente «Mano Dura» (2003-2004) e «Súper Mano Dura» (2004-2008).
Nonostante la Ley Antimaras abbia avuto come risultato la crescita delle detenzioni arbitrarie, la tolleranza zero di Bukele ha creato l’illusione, almeno in una parte della cittadinanza, che la lotta contro la criminalità organizzata abbia iniziato a dare i suoi frutti, tanto che la sua visione ultrasecuritaria ha iniziato a sedurre buona parte dei latinoamericani, sempre più preoccupati per la violenza dilagante nei loro paesi. Limitandosi ad analizzare i dati semplicemente da un punto di vista numerico, si, El Salvador risulta essere meno pericoloso, ma le modalità con le quali sono state gettate le basi di questa vera e propria pulizia sociale restano quantomeno discutibili.
Tuttavia, la forza del bukelismo consiste nell’abilità comunicativa del presidente stesso, il quale riesce sempre a dare la sensazione che non esistano alternative possibili alle sue modalità d’azione, presentate ogni volta come rapide nel risolvere i problemi, ma, nonostante la diminuzione del tasso di omicidi esistono altre opzioni per fermare la violenza e tenere sotto controllo la criminalità senza dover erodere continuamente lo Stato di diritto o ricorrere alla carcerazione indiscriminata di giovani a loro volta già ostaggi di una condizione di violenza.
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