Presidenziali Ecuador: la frode nell’urna
Tuttavia, sono molte le irregolarità denunciate da Luisa González, che ha parlato apertamente di frode e ha rifiutato di riconoscere il risultato delle urne. Il giorno prima del voto, Daniel Noboa, in qualità di presidente uscente, ha dichiarato lo stato d’assedio in sette province del paese, ufficialmente a seguito del dilagare delle bande criminali che, ormai, sono riuscite a sostituirsi alle istituzioni. Non è un caso che la decisione di Noboa sia stata presa proprio nel territorio dove la candidata di centrosinistra era ampiamente favorita.
Andrés Arauz, segretario di Revolución Ciudadana, ha denunciato, in alcuni seggi, la mancanza delle firme del presidente e del segretario delle Juntas Receptoras de Voto ed una militarizzazione che, in pratica, ha finito per favorire il presidente uscente. Il giovane presidente di Acción Democrática Nacional, che si ispira alla democratura bukelista di El Salvador (non a caso il suo quasi coetaneo si è immediatamente complimentato con lui riconoscendone la vittoria), godeva di un vantaggio inferiore ai 16mila voti dopo il primo turno del febbraio scorso.
Nato a Miami e figlio del magnate Álvaro Noboa, l’uomo più ricco del paese, nello scorcio di mandato seguito al disastro di Guillermo Lasso, costretto a lasciare Palacio de Carondelet a seguito delle accuse di corruzione, il giovane Noboa si è rivelato totalmente incapace di mettere un freno alla criminalità organizzata, limitandosi ad allineare il paese al neoliberismo economico, come del resto avevano fatto i suoi predecessori, lo stesso Lasso e Moreno.
La strategia di Noboa è stata esclusivamente repressiva e questo ha fortemente influenzato e condizionato la campagna elettorale, a partire dall’accordo stretto con i mercenari di Blackwater per dichiarare guerra al narcotraffico e dall’assassinio di quattro giovani afroecuadoriani, uccisi lo scorso dicembre a Guayaquil dalle forze di sicurezza, ma messi in conto ai narcotrafficanti. Nel 2024 l’Ecuador è stato il paese più violento dell’America latina con 39 omicidi ogni centomila abitanti, con buona pace della campagna pro Noboa condotta dal leader di Blackwater Erik Prince, il quale ha invitato pubblicamente a votare per il rampollo dell’oligarchia bananera.
E ancora, le elezioni sono state pesantemente condizionate da una delle imprese della famiglia Noboa, la Noboa Trading, denunciata dal giornalista Andrés Durán per esser stata coinvolta in un caso di traffico di cocaina, ma che, grazie alla sua potenza di fuoco, è riuscita a far esiliare il coraggioso cronista in Colombia a seguito di minacce di morte, per non dire delle accuse di Verónica Sarauz, vedova di Fernando Villavicencio, il candidato presidenziale ucciso il 9 agosto 2023 e sul quale pesa il coinvolgimento della Polizia Nazionale e di quelle organizzazioni dedite al riciclaggio di denaro sporco su cui aveva puntato il dito lo stesso Villavicencio prima di essere ucciso.
Non si può dimenticare nemmeno il ruolo assunto dall’ingombrante vicino statunitense in merito al ballottaggio del 13 aprile scorso. Come ha scritto Carlos Fazio su La Jornada, la sfida per conquistare Palacio de Carondelet rappresentava, per la Casa Bianca sotto la guida di Trump, la prima prova nell’ambito della cosiddetta “cruzada antizquierdista” condotta prevalentemente dal segretario di Stato cubano-americano Marco Rubio.
La sua “diplomazia di guerra”, caratterizzata dalla riapertura della base militare di Manta, liberata dalle truppe a stelle e strisce all’epoca del correismo, dalla caccia ai giornalisti (vedi il caso di Alondra Santiago) e dall’ossessione per i nuovi penitenziari, ha fatto parte delle richieste espresse a Noboa per aiutarlo contro Luisa González, la quale, all’insegna dello slogan “Ni un solo voto a la derecha”, era riuscita a creare un’unita delle sinistre aperta anche a Leonidas Iza, candidato presidenziale del movimento indigeno Pachakutik che, al primo turno, si era presentato autonomamente.
Per la candidata di Revolución Ciudadana è stato impossibile far fronte anche all’ingombrante intromissione Usa. Quella che poteva rappresentare, per l’Ecuador, una encrucijada histórica, nel caso in cui, per la prima volta nella storia del paese, una donna avesse raggiunto la presidenza, si è trasformata nell’ennesimo, assai dubbio, trionfo del neoliberismo, dell’oligarchia e dell’estrema destra. Se nel 2015, sotto Rafael Correa, l’Indice di Pace globale dell’ Institute for Economics and Peace vedeva l’Ecuador all’84° posto in classifica, adesso, dopo dieci anni, rileva che il paese è retrocesso fino alla centotrentesima posizione, un segnale evidente del fallimento delle politiche securitarie di Noboa, ma anche di Moreno e Lasso.
Infine, le congratulazioni giunte a Noboa dai settori più oltranzisti della Chiesa cattolica, anch’essi decisivi nell’indirizzare il voto verso di lui, fanno pensare che la battaglia condotta da Luisa González aveva davvero poche possibilità di riuscita, nonostante fossero in molti a ritenere possibile una vittoria progressista. Gruppi di pressione quali Sociedad y Familia e Tradición y Acción hanno giocato un ruolo di primo piano costringendo la stessa González a parlare con loro dall’alto della grande forza e capacità di mobilitazione.
A differenza di altri paesi latinoamericani, il piccolo Ecuador non fa notizia, non si merita i titoloni dei giornali che gridano allarmati per l’assenza di democrazia e si strappano le vesti per la mancanza di libertà nell’esercizio del voto, ma tutto ciò non impedisce di scrivere che l’esito delle urne resta, nel migliore dei casi, assai dubbio per non dire una farsa.
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