Messico: Chiapas, tra Nafta e migrazione
"Solo da quando la storia si é convertita in storia mondiale si sono condannati popoli interi, dichiarandoli come superflui... Le sentenze si proclamano a voce alta e si mettono sistematicamente in pratica, in modo tale che nessuno rimanga col dubbio di che destino gli sia stato riservato: Esodo o Migrazione, Esilio o Genocidio", Hans Enzensberger, La grande Migrazione, Einaudi, Torino, 1993.
La storia della migrazione messicana verso gli Stati Uniti d'America si puó far iniziare nel 1880, quando due imprese ferroviarie, la Southern Pacific e la Santa Fé, cominciarono a "importare" dal vicino del Sud forza lavoro a basso costo, in maggioranza indigeni Yaqui, Cora e O'otam. Fino al 1910 circa 20mila messicani all'anno venivano reclutati dagli agenti delle compagnie ferroviarie. Durante la Prima Guerra Mondiale i lavoratori messicani svolsero un ruolo centrale nello sviluppo dell'economia statunitense, ma l'usuale gratitudine del governo Nordamericano non tardó a presentarsi sotto forma della piú feroce ondata di violenza xenofobica di cui il popolo messicano sia mai stato vittima. Mentre i veterani di guerra attaccavano i lavoratori e le lavoratrici "alieni" nei posti di lavoro,
bruciando le loro case e rubando i loro averi, le imprese agricole, ferroviarie, e la sempre piú presente industria automobilistica, continuavano a contrattare i messicani per un salario da fame, lasciandoli in una situazione di permanente illegalitá e pericolosa vulnerabilitá di fronte alle aggressioni. Da allora l'ambiguità della gestione del fenomeno migratorio da parte del governo Usa, non é cambiata: la clandestinitá e l'illegalitá a loro rischio e pericolo sono la normale condizione che i migranti messicani affrontano dal primo istante in cui mettono piede sul territorio degli Stati Uniti.
Il primo gennaio 1994 entra in vigore il Trattato di libero commercio dell' America del Nord (Nafta, nella sua dicitura in inglese), un accordo che lega l'economia canadese, statunitense e messicana attraverso l'apertura delle frontiere alle merci con l'abolizione di dazi, la liberalizzazione della circolazione dei capitali e la forte diminuzione del potere politico degli Stati-nazione, che di fatto non avranno piú la capacitá di sindacare le scelte economiche imposte dal trattato. Da quel momento la contraddizione interna alla politica migratoria dei due paesi piú ricchi si fa di giorno in giorno piú stridente.
Uno studio del United States General Accuonting Office (Gao) del 2001 segnala che, nonostante l'aumento consistente della spesa per la sicurezza della frontiera Sud degli Stati, negli ultimi sette anni il flusso migratorio non sia diminuito; come conseguenza si é registrato un aumento delle morti nel tratto di frontiera diventato più invalicabile e pericoloso per chi tenta il suo attraversamento. Il Centro di ricerca
sull'immigrazione dell'Universitá di Houston, Texas, stima che tra il 1995 ed il 1998, il numero di morti per ipotermia e insolazione sia aumentato di tre volte rispetto ai livelli degli anni '80. Nel 2003, secondo la Commissione di diritti umani del Senato della Repubblica federale del Messico, sono avvenuti circa 400 decessi al confine Nord del Messico. All'inasprimento della politica Nord-americana nei confronti delle persone che tentano di attraversare il confine, corrisponde nota una massiccia presenza di lavoratori e lavoratrici messicane clandestine e non, che ormai rivestono un ruolo fondamentale per la prosperitá dell'economia statunitense. D'altronde è proprio la teoria neoliberista a spiegare
che accelerando e garantendo la mobilitá del capitale e facilitando l'intervento
di quello estero, si ottiene mobilitá dei lavoratori. Se in questo quadro si
aggiunge un'area interstatuale di libero commercio, il risultato è noto: "Quando il sistema politico e quello economico si interconnettono, le forze lavoro tendono a fluire verso il paese dove c'é minor stratificazione sociale e dove gli standard di vita sono piú alti".
Questa teoria, peró, non ci racconta le terribili condizioni che spingono i lavoratori messicani ad abbandonare le proprie case, i propri affetti, le proprie comunitá per affrontare un pericoloso viaggio verso quella prosperitá economica che probabilmente non incontreranno mai come clandestini, destinati a lavori mal pagati e insicuri. Secondo un'indagine dell'Associated Press, negli Usa muore un lavoratore messicano al giorno; erano il 30% dei morti sul lavoro a metá degli anni '90, sono diventati l'80% nel 2003. Gli ufficiali della pubblica sicurezza spiegano il fenomeno attraverso lo status di illegalità dei lavoratori messicani,
costretti ad accettare qualsiasi tipo di occupazione ad alto rischio, in totale assenza di equipaggiamento e formazione adatta. Nel caso di incidente mortale di un lavoratore clandestino, l'autorità federale competente (l'Occupational Safety and Health Administration) multa il datore di lavoro per mancato compimento degli standard di sicurezza per 50 dollari. Questo é il prezzo che il governo Usa ritiene equo per la morte di un non cittadino.
Attualmente sono presenti in territorio statunitense circa 8,5 milioni di messicani, di cui 5,5 milioni "regolari" e 3 milioni circa senza permesso di soggiorno (n un reato penale negli Usa). Si stima che ogni anno prendano la strada dell'emigrazione circa 610mila messicani in maggioranza sprovvisti della documentazione necessaria per varcare stabilmente i confini.
L'importanza e la crescita del fenomeno è ben rappresentata dal valore delle rimesse dei lavoratori residenti negli Usa rappresentato nell'economia messicana, che nel 2002, raggiungevano i 6,75 miliardi di dollari (sesta fonte d'entrata valutaria per il paese) e nel gennaio del 2004 si piazzavano al secondo posto, subito dopo il petrolio, con un valore stimato tra i 9.4 ed i 14 miliardi di dollari.
Intanto, a dieci anni dall'ingresso del Messico nel mercato globale con il Nafta, il salario minimo nazionale ha perso il 20% del suo potere d'acquisto e la classe politica messicana non ha saputo affrontare e risolvere il problema della mancanza di posti di lavoro, mentre rimane costante la domanda di mano d'opera nei settori agricoli, industriali e dei servizi da parte degli Stati Uniti. Non stupisce, quindi, che il fenomeno migratorio messicano verso il piú ricco vicino sia in costante crescita e che 1,3 milioni di famiglie dipendano direttamente dalle rimesse economiche provenienti dagli Usa. Quello che invece sorprende é la mancanza di volontà, da parte dei due governi interessati, di regolare il fenomeno. Le autorità chiudono entrambi gli occhi sulle bande di "polleros", contrabbandieri di
mano d'opera, organizzati in una vera impresa transazionale conosciuta come la
Gringo Coyote Company che gestisce un traffico clandestino di persone del valore di 8 miliardi di dollari l'anno. Se nel 1995 un messicano che affidava la sua vita nelle mani di un "pollero" per attraversare la frontiera con gli Stati Uniti pagava tra i 20 e i 30 dollari, oggi con un aumento considerevole del rischio si arrivano a pagare tra i 1500 e i 2500 dollari. In sostanza, una massa di denaro ogni giorno si sposta da un lato all'altro della frontiera, fomentando il traffico clandestino di lavoratori e la corruzione degli agenti doganali.
Uno degli Stati dove la Gringo Coyote Company si impegna maggiormente nei suoi affari é il Chiapas. Nel municipio di Comalapa, ad esempio, il 24 marzo 2004, seicento uomini hanno intrapreso "il viaggio della speranza" verso il Nord, dopo essere stati contattati da una delle tante "agenzie di viaggio" sorte nel municipio."Qui a Comalapa non c'é piú lavoro, in ogni angolo di strada c'é una cantina, i prezzi del café e del mais stanno scendendo ed il pinche governo non fa altro che promettere, non sviluppa l'industria e non si accorge che da qui partono ogni mese 2400 persone verso gli Stati Uniti, non si accorge che dipendiamo economicamente dai soldi che ci inviano da lá", cosí spiegava la situazione Joaquín López López , un uomo che con la sua famiglia ha piú volte tentato di attraversare la frontiera. A Comalapa negli ultimi anni hanno aperto 30 casse di cambio, due banche e altrettanti uffici delle poste; un chiaro esempio dell'importanza che per questo municipio ha significato l'emigrazione verso gli Usa. Non si tratta di un esempio isolato all'interno dello Stato: nel municipio di Siltepec, zona Sierra, ogni mese partono 200 persone di un'etá compresa tra i 20 ed i 45 anni e arriva circa un milione di dollari. Nella comunitá di Las Delicias, nello stesso municipio, non si vedono piú uomini. Sono rimaste solamente le donne e gli anziani in attesa dei soldi dal parente d'America.
In tutto, sono circa 90mila i chiapanechi che annualmente affrontano la difficile scelta di lasciare casa e affetti per cercare fortuna oltre il confine, a fronte di 380 milioni di dollari l'anno di rimesse (pari al 4.5% del Pil dello Stato).
Per meglio comprendere le ragioni di questo, ci si deve soffermare sulle conseguenze per il mercato del mais derivate dall'avvio del Nafta nel 1994. Il Chiapas storicamente ha basato la sua sopravvivenza sulla coltivazione del campo, la produzione agricola rappresenta il 45% del Pil. Oltre il 95% dei produttori di mais, a cui é dedicata la coltivazione del 65% del terreno chiapaneco, lavorano appezzamenti di terra inferiori ai 5 ettari. Con l'entrata in vigore del Nafta il mais statunitense, coltivato intensivamente e sovvenzionato, ha invaso la terra della piccola produzione messicana. Tanto per chiarire, se il rendimento medio di produzione di mais negli Usa é di 8/10 tonnellate per ettaro, in Messico oscilla tra 2 e 5, mentre in Chiapas tra 1 e 3. Inoltre, grazie ad una legge promulgata nel 2002, gli Stati Uniti concedono a ogni agricoltore 52,30 dollari al giorno come sussidio alla produzione (1,8 dollari al giornoin Messico). La differenza ricade moltiplicata sul prezzo di vendita. Così, mentre la produzione di mais messicano costa 181,9 dollari la tonnellata, il prezzo sul mercato internazionale é sceso a 123,18 dollari. Per le multinazionali ci sta pure il costo del trasporto. E infatti é esattamente quello che fanno. I piccoli contadini messicani e chiapanechi, trovandosi schiacciati da questa concorrenza sleale, sono costretti ad abbandonare il campo e cercare fortuna altrove. Il lavoro che per millenni ha dato da mangiare agli abitanti di questa regione rischia di scomparire insieme a migliaia di uomini ogni anno.
Il Chiapas é uno degli Stati messicani dove é piú forte il morso della politica liberista, dove le risorse naturali, abbondanti nel territorio, sono facile preda di grandi aziende, ma è anche il luogo dove la resistenza quotidiana dei popoli indigeni si erge come una diga contro l'invasione dell'omologazione targata Coca Cola. In questo scenario di colonialismo, di sofferenza e di lotta si dilaga il fenomeno migratorio, che impone l'esilio e abbandona l'esule allo sfruttamento e alla criminalizzazione.
Dopo l'11 Settembre, la situazione è ulteriormente peggiorata. Gli Stati Uniti hanno inasprito la loro politica nei confronti dello straniero trasformandolo in un potenziale "terrorista". La paura diffusa a piene mani permette e giustifica il comportamento congiunto del governo e delle grandi multinazionali che, in nome di una sicurezza nazionale sempre piú indefinita e sempre piú richiamata nei discorsi ufficiali e televisivi, mantengono illegale la condizione del migrante. Per lui non ci sono diritti come cittadino e come lavoratore. Il tutto costa meno a vantaggio, soprattutto, ancora un volta delle imprese nordamericane e del suo settore agricolo.
Parallelamete a questo circolo vizioso che imprigiona come in una ragnatela l'indio messicano, incontriamo un nuovo modello che sorge dalla stessa terra chiapaneca: il movimento zapatista. Solidarietá e tradizione indigena per rispondere alle minaccia mortale del liberismo con un progetto d'autonomia comunitaria che risulta essere la possibile alternativa di regole e di vita. In un'epoca storica dove l'imposta omogeneitá culturale si trasforma facilmente nell'appropriazione violenta o nel genocidio dei saperi diversi, l'orizzonte disegnato dagli indigeni del Chiapas sembra essere la sola risposta per la sopravvivenza e per il riscatto di questo popolo che, anche a causa dell'acuirsi del fenomeno migratorio, continua a subire la politica colonizzatrice delle grandi potenze mondiali.
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