Venezuela: I giochi sono fatti: ora al voto
Tutto è pronto a Caracas per il voto di domenica prossima, in cui 14 milioni di elettori saranno chiamati a pronunciarsi sulla permanenza o meno al potere del presidente Hugo Chávez Frías. Testate con successo le nuove macchine elettroniche predisposte per l'espressione del voto, ieri si è chiusa la campagna elettorale dei due schieramenti. È scattato il divieto di vendere alcolici fino alla sera di domenica, oltre a quello di fare dichiarazioni sui media (che, visto il contesto venezuelano, non è detto che sarà rispettato). Nel pomeriggio di ieri, i fautori del sì - ossia della cacciata di Chávez - hanno dato vita a sei marce diverse, confluite su una delle principali strade a scorrimento rapido che attraversano la capitale venezuelana. I chavisti si sono invece ritrovati fin dalla mattina davanti a Miraflores, il palazzo presidenziale. Diverse aziende hanno dato mezza giornata di ferie ai propri dipendenti per permettere loro di partecipare alle manifestazioni, o comunque per sfuggire alla congestione alla circolazione creata dai cortei. Di fatto, l'intera città è stata bloccata dalle iniziative.
La composizione, i colori, gli slogan dei due cortei rispecchiano la marcata polarizzazione della società venezuelana: alle bandiere rosse che sventolavano e agli inni rivoluzionari (come le canzoni di Ali Primera) che rimbombavano intorno a Miraflores fin dal mattino, corrispondevano nei vari raduni dell'opposizione bandiere venezuelane e poster con il presidente raffigurato nei panni di un ladro che scappa con il bottino.
Quattromila poliziotti sono stati schierati per evitare l'incontro dei due cortei. O meglio, per evitare che il corteo dell'opposizione si dirigesse verso il palazzo presidenziale, come accaduto in occasione del colpo di stato dell'11 aprile 2002. Rispetto a quel periodo, la situazione appare tutto sommato meno tesa: la campagna elettorale è stata serrata ma, a parte i soliti episodi di violenza verbale sui media e qualche scaramuccia nelle piazze per il diritto a montare banchetti, non ci sono stati episodi estremi. Il clima è volto all'attesa, anche se diversi segnali sembrano indicare come più probabile una vittoria del no. Vari gruppi di investitori internazionali hanno auspicato la vittoria di Chávez, come ha ricordato lo stesso presidente ieri in una conferenza stampa. Probabilmente, un chiaro voto in favore del no darebbe infatti al Venezuela quella stabilità che gli manca da almeno due anni e mezzo.
Rimane l'incognita dell'opposizione, quell'insieme eteroclito di gruppi, partiti, organizzazioni che si riconosce nella sigla Coordenadora democratica. Da qualche giorno a questa parte uno dei suoi leader - il governatore dello stato di Miranda Enrique Mendoza - continua a mandare segnali bellicosi al governo: domenica ha affermato che avrebbe dato i risultati prima della chiusura dei seggi, poi ha avuto modo di dire che, in ogni caso, la vittoria del no sarebbe fraudolenta. Chávez ha quindi detto che, nell'eventualità assai probabile di un suo successo, «invito quei leader dell'opposizione che riconoscano la sconfitta a un pranzo di discussione a Miraflores già il lunedì 16».
Vista la passione che la popolazione caraqueña mostra per la questione - è praticamente impossibile parlare d'altro -, è remota la possibilità che il voto non raggiunga il quorum che ne garantisce la validità (il 25% degli aventi diritto).
Evento unico in America latina e forse anche al mondo, il referendum revocatorio è previsto dalla Costituzione bolivariana approvata a larga maggioranza dal popolo nel dicembre 1999. Secondo il testo, che gode qui di una specie di culto assoluto (anche fra coloro che si oppongono a Chávez), tutti funzionari pubblici possono essere rimossi mediante referendum a metà mandato, previa la firma di almeno il 20% del corpo elettorale. Una misura che non riguarda solo la massima carica dello stato: la settimana prossima, dopo quella su Chávez, si terranno altre revocatorias di alcuni deputati dell'Assemblea nazionale.
Nel caso di una vittoria del no, si tratterebbe dell'ottavo successo elettorale di fila del presidente venezuelano. Che, nonostante ciò, continua a essere descritto dall'opposizione come un dittatore
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Fingendo di dimenticare di essere il segretario di stato di un presidente che probabilmente è stato eletto con la frode e ritenendo del tutto normale (e anzi rivendicando) che gli Usa finanzino apertamente l'opposizione, Colin Powell ha voluto aggiungere ieri la sua voce al coro - americano ma non solo - che esige la «trasparenza» del voto nel referendum di domenica in Venezuela. Powell ha detto che la «supervisione imparziale» del referendum è «vitale» e quindi ha sollecitato l'accesso «senza restrizioni» per gli osservatori internazionali. Gli osservatori internazionali, invitati dal presidente Chavez e dal Consiglio nazionale elettorale, sono centinaia, da 15 paesi diversi. «L'osservazione elettorale effettiva è vitale per la credibilità di questo referendum», ha ammonito Powell. E' del tutto evidente a chi era indirizzata la sua ammonizione. Che invece dovrebbe rivolgere ai suoi amici dell'opposizione. Mentre Chavez, democraticamente eletto e confermato in 7 tornate elettorali dal '98 a oggi, ha detto che accetterà il risultato delle urne, l'opposizione non l'ha detto. Anzi, per bocca di uno dei suoi leader, il governatore dello stato di Miranda Enrique Mendoza, ha dichiarato quanto segue: «Sfido Chavez ma non accetterò la sconfitta» (dal Corriere della Sera di ieri).
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