Venezuela: oggi il referendum sul presidente
Soltanto dieci minuti a bordo di una metropolitana moderna ed efficiente separano la fermata Capitolio e quella Altamira. Ma è un viaggio tra due mondi lontani e diversi. La Caracas dei ricchi sembra una zona di Miami o New York, punteggiata da grattacieli, centri commerciali, fontane e giardini curati che esibiscono tulipani e dalie. Quella dei poveri assomiglia ai quartieri centrali e alle periferie di tutte le capitali latinoamericane: caotici, sporchi, affollati di bambini, soldati e venditori ambulanti. Da tempo le due città non riescono più a comunicare. Ma soprattutto in questa nervosa vigilia del referendum si guardano, timorose e minacciose. Oggi sono chiamati al voto 14 milioni di venezuelani: dovranno decidere se confermare o meno al potere Hugo Chavez, il presidente «bolivariano» odiato da Bush, che sta attuando la sua «rivoluzione» a colpi di programmi sociali a favore dei poveri (che in Venezuela rappresentano circa il 70 per cento della popolazione). Manifesti e bandiere appaiono ovunque, ai semafori come ai balconi, mentre le magliette, i cappellini, le spille e i braccialetti di colore rosso o del tricolore rosso-giallo-blu vengono esibiti da «chavisti» e «antichavisti». Ma ognuno sa bene che non deve valicare la frontiera invisibile di una città divisa.
Nella Caracas dei poveri, che adora Chavez abbondano mulatti, meticci e neri. Quella che lo odia invece è marcatamente bianca. Tutti i sondaggi danno Chavez in testa, anche se esistono molte incognite sull’esito del voto. Tutto si decide nelle dieci ore di apertura dei seggi, pronti ad accogliere l’affluenza più massiccia della storia venezuelana. Dei quattordici milioni di elettori convocati ne arriveranno senz’altro più di dieci, forse dodici, con una partecipazione ormai inusuale persino in Europa. Donne e uomini fino ad ora emarginati ricambieranno quasi sicuramente col voto i programmi sociali di Chavez che hanno portato medici cubani e generi alimentari a basso costo nei «ranchitos», i quartieri-baraccopoli. «Andate ai seggi all’alba, portatevi la colazione, ombrelli per ripararvi dal sole e le sedie per le persone più anziane», ha invitato Chavez nel suo ultimo infuocato discorso dalla piazza Miraflores. Visto che la stessa indicazione è stata data dalla Coordinadora Democratica (la composita coalizione di 13 partiti d’opposizione), la tensione sarà subito forte.
Il leader dell’opposizione, Enrique Mendoza, ha già annunciato che non aspetterà la chiusura dei seggi per cantare vittoria. E lo ha ribadito anche dopo la reazione del Consiglio Nazionale Elettorale e le critiche di Jennifer McCoy del Centro Carter, una delle organizzazioni che da anni si è proposta di mediare nel conflitto venezuelano. La Coordinadora, che viene data perdente da quasi tutti i sondaggi, potrebbe puntare ad invalidare un voto che la obbligherebbe a sopportare per altri due anni il presidente «indio e comunista». O almeno a isolare internazionalmente il suo governo. La strategia però rischia di portare il Paese alla guerra civile. Per questo tutti guardano con trepidazione a Washington, dove si tirano le fila della Coordinadora. Le ultime dichiarazioni di Colin Powell, Condoleeza Rice e dell’ambasciatore nordamericano a Caracas, Charles Shapiro, dimostrano che gli Usa non hanno ancora deciso quale atteggiamento tenere nel caso di una probabile riconferma di Chavez. Il quale, d’altronde fa di tutto per tranquillizzarli. «Sono l’unico che può garantire stabilità, ordine e soprattutto un flusso continuo di petrolio agli Stati Uniti», ha tenuto a precisare a poche ore dal voto Hugo Chavez. Si saprà stasera se il suo messaggio è stato recepito.
Occhi puntati sulle riserve petrolifere
Un’eventuale destabilizzazione del Paese avrebbe ripercussioni sulla crisi petrolifera mondiale. Il Venezuela è il quarto produttore mondiale di petrolio. Nei giorni scorsi, parlando a centinaia di migliaia di militanti del «No», il presidente Chavez ha detto senza mezzi termini: «Immaginatevi che il Venezuela entri in una situazione di ingovernabilità; il barile di petrolio potrebbe schizzare a 50, 60 e perfino 100 dollari». Gli impianti estrattivi sono da giorni sotto stretta sorveglianza non solo degli agenti di polizia venezuelana, ma anche degli operatori delle borse mondiali. Gli Usa, ostili alla politica «socialisteggiante» di Chavez, importano quasi la metà del petrolio venezuelano.
INTERVISTA A LEOPOLDO PUCHI
Caracas. Nel 1998 ha contribuito al trionfo di Hugo Chavez, che lo nominò ministro del Lavoro del suo primo governo. Dopo due anni si è dimesso. Adesso, come segretario del Mas (Movimiento al socialismo), Leopoldo Puchi è uno dei più prestigiosi leader della Coordinadora Democratica, la coalzione dell’opposizione formata soprattutto dalla destra.
Non si trova a disagio un esponente di sinistra a far parte di una coalizione nella quale prevale l’oligarchia appoggiata dagli Stati Uniti?
«Molto meno di quanto lo fossi con Chavez, quando impose un’accelerazione radicale e populista al suo governo».
Per quali ragioni il Mas ruppe nel 2001 con Chavez?
«Per la sua incapacità di dialogare con i settori sociali produttivi e soprattutto con la classe media, ma anche per la sua scelta di eliminare ogni autonomia del potere giudiziario, politicizzare l’esercito e creare milizie clandestine armate».
Non crede che la demonizzazione di Chavez da parte dell’opposizione derivi dalla sua decisione di realizzare varie riforme in Venezuela, a partire da quella agraria?
«No, la vera causa è il suo estremismo. Io gli riconosco una certa sensibilità verso quella parte del popolo più bisognoso, ma non posso che condannare i suoi metodi e la sua ideologia primitiva.
Ma questa polarizzazione non nasce dalla scelta di colpire, appunto con le riforme, gli interessi consolidati dei ceti più ricchi?
«Le riforme vanno fatte attraverso il dialogo, costruendo consenso, senza agitare parole d’ordine che andavano bene ai tempi della Russia zarista. Oltre tutto quello di Chavez è un estremismo impotente. Nessuna riforma proposta è stata realizzata a favore del popolo».
Ma è indubbio però che il suo governo possa vantare successi notevoli nel campo sociale, nel quale ha investito come nessun altro finora.
«Chavez ha approfittato dello straordinario aumento del prezzo del petrolio per portare avanti una serie di campagne propagandistiche. Ma cosa succederà quando terminerà questa congiuntura favorevole?»
Qual è il suo giudizio sul colpo di stato contro Chavez dell’aprile 2002?
«È stato un errore sia di alcuni settori dell’opposizione civile, che supponevano un isolamento di Chavez che si dimostrò falso, che di alcuni alti ufficiali, che si lasciarono trascinare in un’avventura disperata. Adesso però la Coordinadora è diventata più matura, come dimostra il suo programma unitario».
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