Latina

Venezuela :petrolio e democrazia, il caso Chavez

In tempi neoliberisti il petrolio può stare in mano al popolo?
25 agosto 2004
Francesco Strazzari (universita' di Bologna)
Fonte: Il Manifesto

Può l'esportazione di petrolio su grande scala conciliarsi con un assetto domestico democratico? Uno sguardo alla storia e alla geografia della globalizzazione indurrebbe a rispondere di no: gli spazi di democrazia, nei paesi grandi esportatori di greggio, tendono a essere ben misera cosa. Ancor più difficile è trovare, in presenza di interessi petroliferi, una democrazia in senso sostanziale e non meramente procedurale del termine. Il Venezuela bolivariano di Chàvez (quinto esportatore mondiale, 3,1 milioni di barili al giorno estratti, in massima parte diretti verso gli Stati uniti, per un gettito che supera la metà delle entrate statali) può essere letto attraverso questo quesito: di quali strumenti dispongono i paesi produttori che sono parte delle (semi-)periferie del globo, tanto in relazione alle scelte estrattivo-commerciali su scala internazionale, quanto alla redistribuzione della rendita in ambito domestico? Detto in termini chavisti: può il petrolio in tempi di neoliberismo essere messo «nelle mani del popolo»? Permane, in tal caso, una fisionomia democratica? C'è un modo in cui la questione petrolifera tocca direttamente gli esiti dello scontro politico venezuelano: con gli indici economici dello scorso anno (una contrazione del 9,4 %) molti osservatori dipingevano Chàvez in affanno, nell'improbabile caso in cui il referendum promosso dall'opposizione avesse avuto via libera. Un anno esatto fa sui media venezuelani (quasi tutti antichavisti) i leader dell'opposizione si beavano di aver depositato le firme grazie ad un'ardita sortita notturna che aveva aggirato l' «ubriaca turba rivoluzionaria schierata ad impedire che si avviasse il processo referendario». La prima spallata al presidente è stato il tentato golpe - si diceva. La seconda il blocco delle attività petrolifere, e la terza sarà la salida democratica veicolata attraverso un cartello di composite opposizioni appoggiato da Washington. Chàvez perirà per mano di Chàvez, insomma: attraverso un meccanismo diretto di revoca del mandato di qualunque funzionario eletto, «meccanismo giacobino» previsto dalla Costituzione che Chàvez stesso ha voluto quale inizio della rivoluzione.
E' il 2003: circolano studi su come il bolivarismo porti all'impoverimento generalizzato del paese, con imprevedibili esplosioni sociali e criminali. Si può ricordare lo studio dell'Universidad Catòlica Andrès Bello, che mostra come - a dispetto della retorica pauperista del presidente - fra il 1998 e il 2003 la povertà estrema nel paese sia raddoppiata, arrivando a una situazione dove il 40% della popolazione è incapace di mettere insieme il cesto-base. Secondo queste cifre, il 74% dei cittadini vive sotto la soglia di povertà, e 5 milioni sono gli impiegati nel settore informale urbano: un esercito parallelo di venditori e fornitori che invadono ogni strada e «si mangiano» i ceti medi del commercio.
Contro queste fosche previsioni di caduta (-13% annuo, si pronosticava), già dalla scorsa estate l'economia, trainata dalle esportazioni di petrolio e dal prezzo al barile in crescita, ha invertito la rotta, e per quest'anno punta con decisione a un + 10%. Che il tempo per Chàvez tenda al bello si intuisce già in primavera, quando la Banca centrale annuncia un 30% di crescita sul primo quarto del 2004, poi passato a un più verosimile +15% al giro di boa di metà anno.
Quale strada ha imboccato la rivoluzione bolivariana per tradurre la crescita economica in consenso elettorale? Domenica 15 agosto fin nelle periferie orientali più remote del paese la macchina elettorale fa suonare la sveglia in strada alle 3 di notte: in un clima di festa tutti vanno a votare, mettendosi in fila per ore e ore. L'opposizione si lamenta per le attese, i chavisti no. Il consenso su cui si regge questa mobilitazione di massa si fonda su una serie di elementi più o meno inediti. Sul piano interno, in primo luogo le misiones, interventi sociali sostenuti anche da personale cubano, dislocate in barrios dove non si era mai visto un medico o un insegnante. In secondo luogo, l'esercito, impegnato nella crociata che il presidente ha lanciato contro la povertà: ovunque si vedono truppe che costruiscono case e distribuiscono granaglie e huevos solidarios. In terzo luogo, volani della mobilitazione sono i tam-tam dei venditori informali, e la rete di formazioni ex-guerrigliere (ad esempio, i Tupamaros), dove queste si sono radicate nel controllo del territorio. In quarto luogo, misure come il controllo della valuta e i controlli sui prezzi, odiose per chi ha disponibilità di denaro e animo imprenditoriale. Infine, la spesa pubblica per infrasturtture (durante l'estate si è registrato un calo della disoccupazione dal 15 al 12%). Tutto questo ha probabilmente avuto effetti maggiori che non le timide riforme ridistributive in settori chiave, come agricoltura e pesca.
Sul piano internazionale, il risultato più importante portato a casa appena un mese prima del referendum, è l'associazione del paese al Mercosur, grazie alla quale si stima che le esportazioni potranno crescere di un ulteriore 20%. Più ancora che il dato assoluto, conta la dinamica di solidarietà fra i leader sudamericani: con l'eccezione del colombiano Uribe, Chàvez è amato un po' ovunque, e dove non sono amati i suoi modi, è amata la prospettiva di una maggiore integrazione continentale, se non altro come fattore che rafforza la posizione negoziale degli invitati sudamericani ai tavoli apparecchiati da Washington: il che spiega come l'Argentina di Kirchner e il Brasile di Lula, figli di storie politiche del tutto differenti, si prodighino nel tessere stretti rapporti con Caracas. In ballo, più che la cubanizzazione del Venezuela, c'è il grado di autonomia della regione in tempi di Alca e Plan Colombia. Può il petrolio venezuelano essere impegnato per lo sviluppo del limitrofo Nordest brasiliano, come caldeggia la politica estera di Palàcio Itamaraty? Le nuove leggi prevedono che la fetta che il Venezuela trattiene sulla commercializzazione del greggio sia portata dal 16 al 30%.
La rottura della pax clintoniana non viene tuttavia giocata lungo perimetri ideologici: sul petrolio non si scherza. Se è vero che gli Stati Uniti di Cheney e dei Bush non hanno esitato a schierare contro Caracas gli uomini della Guerra fredda, è vero soprattutto che la Casa bianca è consapevole che il tavolo vale più della partita, e che con mercati internazionali così «tirati» la sconfitta di Chàvez avrebbe aperto un capitolo imprevedibile per il petrolio.
Il tentato golpe trasformò l'ex golpista Chàvez in difensore dell'ordine costituzionale. Il blocco petrolifero gli consentì di fatto di prendere il controllo sulla Pdvsa, il colosso degli idrocarburi. Infine, il referendum che ne attaccava direttamente la legittimità ci restituisce Chàvez sugli scudi vestito di rosso fuoco, invocante benedizioni divine senza che in realtà si intravedano aperture ai ceti medi impoveriti. Puntando sulle divisioni di questi ultimi, mescolando temi di classe e indigenismo in modo confuso e certamente populista, Chàvez è il prodotto del fallimento di una élite che grida al tradimento e ancora si culla sul mito del «sogno saudita interrotto», spazzando la questione sociale sotto il tappeto, o facendo professioni di fede rispetto all'effetto trickling down dalla crescita economica vaticinato dalle ricette neoliberali. Di più, è «il mio Presidente», è quello che fa arrivare pane, mattoni e medici.
*Università di Bologna

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