Latina

Nella trappola colombiana

Il treno della cooperazione europea con Bogotà finisce su un binario morto
25 settembre 2004
Guido Piccoli
Fonte: Il Manifesto

Quando non spariscono, i cadaveri sono l'unica certezza di molte storie colombiane. Per il resto è quasi sempre tutto oscuro, o almeno discutibile: l'identità di killer e mandanti, i moventi e il contesto dei delitti, la stessa personalità delle vittime. E' stato così anche per il cadavere di Euser Rondón Vargas, ex sindaco della cittadina di El Dorado, ritrovato dentro una Ford Fiesta il 14 settembre scorso a una cinquantina di chilometri al nord di Bogotà, in compagnia di altri due esponenti del movimento «Equipo Colombia», un ex governatore e una deputata regionale. Ognuno con cinque pallottole in corpo. La sera precedente, Rondón aveva abbandonato i suoi dieci uomini di scorta per incontrare degli «amici». Non è una forzatura cominciare da un delitto per parlare dei rischi e delle difficoltà della cooperazione europea, e quindi anche italiana, in Colombia. Rondón era il leader dell'Associazione dei Municipi dell'Alto Ariari (meglio conosciuta con la rassicurante sigla«Ama»), referente dell'agenzia delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp) ma, soprattutto, partner di una «rete italiana per la cooperazione decentrata», costituita da enti locali, università e Ong (dal comune di Modena e la regione Emilia Romagna al consorzio Pluriverso, dalla provincia diTrento al Mlal e l'università di Pavia). Su chi fosse veramente, quale sia stato il suo ruolo e quale sia la situazione della regione in cui operava, c'erano due opinioni opposte. Secondo la prima, era il protagonista di un riuscito processo di pacificazione di una zona strategica del paese (che sarebbe stata in passato flagellata dai ribelli delle Farc ), per il quale ottenne nel 2002 il Premio nazionale della pace, attribuito da varie fondazioni private e dalle maggiori testate giornalistiche colombiane. Un processo che è stato raccontato, anche su vari siti internet di Ong italiane, come la sanguinosa guerra campanilistica dei due principali comuni (El Dorado, conservatore, e El Castillo, comunista), terminata tra abbracci, solenni giuramenti di rispetto reciproco e precisi impegni di collaborazione economica.

Con lo smeraldero Carranza

In base alla seconda opinione, Rondón era invece il volto più noto e presentabile della strategia paramilitare (completata sotto la presidenza Uribe ma iniziata nella metà degli anni Ottantacon lo sterminio, finanziato dallo smeraldero Victor Carranza, di tutti gli amministratori e militanti del movimento dell'Unión Patriotica), che avrebbe sì pacificato l'Alto Ariari, ma facendone, come diceva Tacito, un deserto.

Due verità inconciliabili, quindi. Quella ufficiale, del governo e della stampa colombiana, presa per buona dalla cooperazione italiana, progressista e indubbiamente impegnata, anche al di là della Colombia, nella promozione dei diritti umani. E l'altra verità, sostanzialmente ignorata da quest'ultima, delle organizzazioni umanitarie, da Amnesty International a Justicia y Paz, dei sindacati e dei movimenti di sinistra, che da tempo denunciavano che l'Alto Ariari, come succede per la gran parte delle zone urbane e rurali riconquistate dallo stato alla guerriglia, fosse passata sotto il totale controllo paramilitare. Il delitto di Rondón è destinato a rimanere impunito, visto che tutto fa pensare a un regolamento di conti all'interno dei paramilitari (così come sembra sia stata l'uccisione, avvenuta cinque giorni dopo, di Miguel Arroyave, capo del Bloque Centauros dei paramilitari, che domina la regione). La sua tragica fine, per ora, ha solo chiarito chi fosse la vittima. E' stato proprio il Bloque Centauros, infatti, a rivedicarel'affiliazione di Rondón, rendendo pubblico che fu lui a organizzare i pullman che trasportarono a Bogotà, il 28 luglio scorso, centinaia di sostenitori di Salvatore Mancuso e degli altri due capi delle Auc, invitati da Uribe a parlare nel parlamento nazionale. D'altronde, lo stesso Rondón aveva firmato, insieme ad altri dirigenti di Ama, una lettera aperta pubblicata il 22 agosto scorso a tutta pagina sul quotidiano El Tiempo nella quale, con la pretesa di raccontare «la vera pace nell'Alto Ariari», si sosteneva che fosse stata la popolazione civile a richiedere negli anni scorsi l'intervento dei paramilitari, che venivano ringraziati per il loro contributo alla «pacificazione e sviluppo della zona».

«Per evitare che le migliori intenzioni possano finire per lastricare le vie dell'inferno, bisognerebbe scegliere bene interlocutori e partner, soprattutto nelle zone di conflitto dove è difficile distinguere tra verità e menzogna», sostiene un membro della Commissione Interecclesiale di Justicia yPaz che opera da anni nella regione. Ma occorrerebbe anche imporre condizioni conseguenti ai buoni propositi. Ad esempio, il documento programmatico del maggio 2003, sottoscritto dalla Rete per la cooperazione decentrata italiana insieme col governo colombiano e l'Undp, intitolato «Iniciativa de promoción del desarrollo socio-económico local en Colombia», non citava nelle sue 34 pagine neppure una volta la parola «diritti», mentre ripeteva ben tredici volte la parola «governabilità», come se questa fosse un valore assoluto, indipendente dalla natura e dal programma del governo in carica (nel caso, quello di Alvaro Uribe Veléz).

67,8 milioni di euro

Ma anche quando vengono enunciati con forza, i vincoli programmatici sembrano saltare come birilli in Colombia. E' il caso dei due «Laboratori di pace», promossi e finanziati per 67,8 milioni di euro dall'Unione europea in varie regioni del paese, che vanno dal Magdalena Medio fino al Massiccio colombiano. Se il loro nome fa immaginare una contrapposizione alla scelta bellica, promossa dagli Usa col«Plan Colombia», lo studio dei documenti costitutivi, a firma anche della Banca mondiale e dell'Undp, e ancora di più l'analisi dei loro risultati parziali, dimostra che i «laboratori» sono perfettamente conciliabili con la politica bellicista e neo-liberista di Alvaro Uribe.

Attraversando l'Atlantico, le parole «diritti umani» e «diritti sindacali» scompaiono o si trasformano, nei protocolli d'intesa con Bogotà, nei non meglio identificati «diritti cittadini». E sfumano anche i buoni propositi. Dopo una riunione internazionale, svoltasi a Londra nel luglio 2003, nella quale si decisero gli aiuti al paese sudamericano, il coordinatore della cooperazione europea verso la Colombia, l'italiano Nicola Bertolini, condizionò qualunque ulteriore finanziamento al governo di Bogotà al suo rispetto di ventiquattro raccomandazioni dell'Onu in materia di diritti umani, minacciando, nel caso di una loro inosservanza, «di lasciare affondare ogni aiuto». Erano solo chiacchiere. Sebbene nei mesi successivi il governo Uribe avesse realizzato una politica autoritaria sfacciatamente contraria a quelle richieste, i fondi europei per i cosiddetti «Laboratori di pace» hanno continuato a fluire, come se nulla fosse. Là dove il governo ha voluto, e cioè nelle zone già pacificate, come il Nord Santander, dove (come ha spiegato un attivista umanitario sul Tiempo del 4 luglio 2004) «è stata cancellata qualunque espressione politica indipendente». E per obiettivi che poco hanno a che fare con lo sviluppo sostenibile e la giustizia sociale. In una lettera aperta di fine agosto scorso all'Unione europea, una ventina di associazioni della regione del Cauca hanno definito «i Laboratori di pace un'altra forma di colonizzazione europea, più sofisticata eapparentemente meno violenta di quella realizzata dal governo nordamericano con il Plan Colombia, ma con il comune obiettivo di favorire i progetti delle multinazionali». Insomma, la carota e il bastone.

Con la scusa della biodiversità

Ad essere messi sotto accusa sono le proposte di sviluppo agro-industriale basato sulle monocolture, soprattutto di palma africana, e le mega-infrastrutture, a cominciare da quelle viarie che, guarda caso, sono tutte dirette a «strappare dal loro isolamento» regioni della Colombia e dell'America Latina (prima di tutte, l'Amazzonia) ricche di biodiversità, minerali preziosi, petrolio e acqua. Il «nuovo» proposto con le buone e con le cattive, con le lusinghe e più spesso con le minacce (quasi sempre realizzate con gli omicidi selettivi e di massacri dei paramilitari), ha finora generato tutt'altro che il «prospettato sogno di sviluppo»: ha inaridito in pochi anni la terra, sconvolto l'equilibrio sociale delle zone interessate e trasformato i piccoli contadini prima in braccianti ricattabili e senza diritti e poi in futuri disoccupati. E non ha in nessuna parte creato un nuovo clima di democrazia e tolleranza. Ma il «nuovo» si inserisce anche nel momento particolare del conflitto colombiano in cui Uribe fa di tutto per schierare la società civile accanto al governo e le Forze armate contro le formazioni guerrigliere. Nel presentare, nel marzo scorso, il secondo Laboratorio di pace, il capo-delegazione europeo per la Colombia e l'Ecuador Adrianus Koetsenruijter l'ha paragonato agli interventi «nei processi di ricostruzione e pacificazione visibili anche in altre zone dell'America Centrale». Ma viene subito da domandarsi di che tipo di «pacificazione» o di «ricostruzione» si stia parlando, in Colombia. Quella dell'Alto Ariari, forse? Maggiore trasparenza, chiarezza e dibattito sulle scelte della cooperazione e della solidarietà potrebbe essere un buon antidoto a brutte storie come quella di Euser Rondón.

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