Argentina: Enrico Calamai insignito per aver fatto il suo lavoro da console italiano nell'Argentina di Videla
DISCORSO PRONUNCIATO DA ENRICO CALAMAI DOPO AVER RICEVUTO L’ONORIFICENZA ARGENTINA:
Desidero in primo luogo ringraziare il Presidente Kirschner per l’alto onore che mi viene concesso, ma anche i tanti amici che si sono dati da fare per rendere possibile questo avvenimento. E’ un onore che accetto con emozione e gratitudine, convinto che esso esprima soprattutto la volontà politica del governo argentino di porre la tematica dei diritti umani alla base delle sue scelte in tutti i settori della vita del Paese oggi, dalla casa al lavoro allo stesso debito pubblico, con particolare attenzione ai problemi della memoria e dell’impunità.
Una politica dei diritti umani che si propone di dare concreta attuazione alla complessa elaborazione portata avanti dal sistema delle Nazioni Unite a partire dal secondo dopoguerra, nel tentativo di porre un freno al susseguirsi di genocidi e atrocità che caratterizza i nostri tempi, per quanto tecnologicamente avanzati. Una elaborazione recepita dalla costituzione europea, che ha le sue radici nel pensiero illuminista, ma che già era presente nella tragedia greca, in particolare in quella di Antigone.
La problematica dei diritti umani sembra in effetti essere consustanziale a ogni società umana fin dagli albori della storia. Essa nasce dall’onnipresente divario tra vincitori e vinti, tra singolo, minoranza o dissenso da una parte e il Creonte della modernità, cioè lo Stato, dall’altra. Il complesso di norme universalmente riconosciute che costituiscono i diritti umani, non è altro che il tentativo della comunità internazionale di intervenire in questa costante dialettica, ponendo dei limiti alla libertà d’azione degli Stati. I quali, specie se democratici, hanno bisogno di legalità, ma restano creature polimorfe, dotate di più teste e molteplici braccia come le divinità orientali, in grado di fare tutto a un livello e l’opposto di tutto dove non arriva l’attenzione dell’opinione pubblica. Ricorrono ad apparati paralleli, al segreto di Stato e ai suoi corollari di depistaggi e impunità. Finendo per dimostrare il sostanziale antiumanesimo della realpolitik che ancora governa tante delle scelte che ci coinvolgono.
Tornando al caso Argentina, la strategia repressiva, il sistematico e parossistico ricorso alla tortura e alla eliminazione fisica di ogni possibile oppositore anche futuro è stata chiarita dal processo di Roma, che ha portato alla condanna dei militari argentini direttamente responsabili della morte di 8 cittadini italiani. Ma c’è a mio avviso ancora del lavoro da fare, prima di arrivare a una visione d’insieme delle molteplici implicazioni di quanto avvenuto ai tempi del golpe, sia per quanto riguarda le traumatiche ripercussioni che esso ha avuto sul popolo argentino, che per quanto riguarda i rapporti con i media e con gli Stati esteri che collaborarono con i militari argentini. In particolare, per quanto ci riguarda direttamente, il ruolo svolto dalla politica estera italiana.
La mostruosità di quello che accadde in Argentina sta in primo luogo nella metodologia usata, che fa fare un salto di qualità alla ferocia di stampo nazista, fino a spingerla oltre le categorie del pensabile, fino a renderla invisibile, irrappresentabile e quindi negabile.
Nel centro di Buenos Aires in effetti tutto sembrava continuare nella più assoluta normalità, il traffico era quello di sempre, le stesse erano le file davanti ai cinema, ai teatri, ai concerti, la città conservava la sua vivacità anche se non più la sua effervescenza culturale. Tra i tanti segnali multicolori di un’immutata scenografia urbana, soltanto l’improvviso apparire delle Ford Falcon senza targa richiamava, come la pinna di un pescecane, una realtà sommersa di tortura e sterminio. Si sapeva e non si sapeva quello che accadeva di notte, qua e là nella sterminata periferia della capitale, ma certo i giornali e le televisioni non ne parlavano. Era tutto talmente elusivo, che chi non era direttamente colpito poteva negare o minimizzare o dire di non sapere per continuare a fare la propria vita. Era un terrore reso ancora più invasivo della vita individuale e collettiva, dalla stessa indecifrabilità del suo operare. Il fatto che siano stati in tanti a negare va valutato con grande attenzione: dimostra la portata devastante del trauma cui è stato sottoposto il popolo argentino.
Trauma derivante da un terrore spinto fino allo sgretolamento di quel minimo di coesione sociale che rende possibile la presa di coscienza e la stessa vita politica di una nazione e nel cui ambito lo stesso sterminio di migliaia di giovani appartenenti alla generazione chiamata oggi a governare il Paese, veniva insieme subito e ignorato. Con il risultato dello smantellamento dei sindacati e di qualunque forma di resistenza, dell’applicazione di tutti fino all’ultimo i dogmi del liberismo della scuola di Chicago, dell’apertura di uno dei paesi più ricchi di risorse al mondo alla spregiudicatezza delle multinazionali, dell’accettazione della corruzione e del saccheggio più totali da parte di un popolo che non riusciva a perseguire i peggiori crimini contro l’umanità neanche dopo la fine della dittatura, preoccupato ormai soltanto della sopravvivenza quotidiana, piegato all’alienazione di una sudditanza orwelliana. Esiste un filo rosso che collega la strategia attuata dai militari ai successivi stadi di impoverimento attraversati dal popolo argentino. Ci sono voluti ben venticinque anni prima che si arrivasse all’esplosione catartica di rabbia popolare del dicembre 2001 e ai tentativi di riorganizzazione fondante dell’attuale governo, a partire anche dal difficile lavoro sulla vastità del trauma subito.
Un trauma inconcepibile, che soltanto le madri avevano saputo portare alla luce dalle loro viscere lacerate, dando vita all’unica forma di resistenza che i militari non riuscirono a stroncare. Una resistenza mediatica, col metalinguaggio delle loro sfilate, con foto e fazzoletto bianco, ogni giovedì in Plaza de Mayo.
Il ruolo dei media è stato infatti assolutamente centrale in tutto questo. Media che nel caso cileno avevano permesso di far conoscere, nel mondo intero, la violenza esercitata da Pinochet, condannandolo all’ostracismo. Ma che si dimostrarono impotenti nel caso argentino, perché la normalità della vita a Buenos Aires non offriva alcunché da filmare o fotografare: niente carri armati, niente sacche di resistenza, niente detenuti negli stadi, niente cadaveri, soprattutto niente cadaveri, il che veniva a negare alla radice l’esistenza di un’attività repressiva di stampo cileno, anche se diversamente modulata. E niente rifugiati nelle ambasciate, la cui stessa presenza avrebbe iconograficamente dimostrato l’esistenza della peraltro invisibile caccia all’uomo.
Nei fatti, i media di tutto il mondo furono utilizzati ai fini dell’oscuramento su quanto si stava portando a termine in Argentina. Ciò avvenne anche in Italia, malgrado le significative eccezioni rappresentate dagli articoli di Gian Giacomo Foà per il Corriere della Sera, o dalle corrispondenze televisive di Italo Moretti, da alcuni articoli sull’Europeo e con maggiore frequenza sulla stampa di sinistra: Unità e Manifesto, Paese Sera e Rinascita, che tuttavia non riuscirono complessivamente a scalfire l’indifferenza generalizzata della nostra opinione pubblica, che sembrava focalizzare la propria capacità di sdegno sul Cile di Pinochet.
L’inadeguatezza dell’informazione può essere interpretata come il combinato disposto della peculiare strategia repressiva adottata dai militari argentini, da una parte, e della collaborazione dei governi democratici, dall’altra. E’ anzi possibile dire che fu la collaborazione sia pure omissiva degli Stati occidentali a permettere ai militari argentini di portare a termine la loro politica di sterminio, purché contenuta nelle modalità previste dalla strategia stessa.
La quale in sostanza ruotava tutta intorno alla desapariciòn, una tecnica repressiva incongrua rispetto alla capacità rappresentativa dei media, ormai prevalentemente iconografici e, proprio per questo, in grado di inondare l’immaginario collettivo con realtà parziali presentate come la totalità del reale.
I governi occidentali, che non potevano non sapere, non ritennero di denunciare quanto stava accadendo. Non ritennero di dover svolgere un’azione informativa che supplisse alla carenza di cui i media davano evidente prova.
Tipico il caso dell’Italia, che in quegli stessi anni vedeva il diramarsi della presenza della P2 nei principali quotidiani e nella televisione, oltre che nel mondo della finanza, dell’industria e in tutti gli organi dello Stato, mentre i rapporti commerciali italo\argentini passavano attraverso Licio Gelli, che non casualmente i militari argentini avevano nominato loro consigliere commerciale a Roma.
Era in sostanza quella dell’Italia verso l’Argentina dei generali una politica estera a doppio binario, con un’ufficialità che poteva fingere di non sapere e la P2 che allacciava accordi informali, suggeriva le scelte e faceva in modo che venissero attuate, attraverso i suoi aderenti da una e dall’altra parte dell’oceano .
Ma in Argentina l’Italia aveva una delle sue più grandi collettività all’estero, inevitabilmente colpita nei suoi rappresentanti più giovani, che si trovavano con le porte dell’ambasciata sprangate.
Non è difficile capire perché ciò avvenisse: privilegiare, al di là di ogni turbativa rappresentata da casi singoli, il mantenimento dei buoni rapporti con i militari impadronitisi del potere in Argentina, rispondeva alle pressioni del nostro sistema produttivo: avrebbe permesso consistenti ritorni economico/commerciali, contribuendo al tasso di crescita della nostra economia, ad una maggiore occupazione e, in fin dei conti, ad una maggiore stabilità politica nell’ottica di chi governava. Interesse economico e interesse politico coincidevano: vi si poteva rinunciare per pochi sovversivi?
Occorre soffermarsi su questa domanda, se non vogliamo, in un mondo diventato ormai tutto a portata di mano eppure distante, visibile e invisibile come l’enorme periferia di Buenos Aires, continuare a trovarci coinvolti , sia pure senza saperlo, o potendo dire di non sapere, in scelte politiche che comportino pesanti costi in termini di vite e di sofferenza umana.
Una prima risposta ci viene fornita dalla Corte Suprema di Cassazione che, nel rendere definitiva la sentenza che condanna i militari argentini direttamente responsabili dell’uccisione di 8 cittadini italiani, afferma tra l’altro che "…lo Stato italiano aveva il diritto e il dovere di intervenire per tutelare i diritti di cittadini italiani e per fornire loro l’assistenza necessaria". Ma la domanda si ripropone: è andata proprio così? Credo che in questa sala vi siano oggi persone in grado di testimoniare che così purtroppo non fu. Potrebbe anche essere che dopo tanti anni i nostri ricordi ci ingannino, ma rimane il fatto che non vi fu neanche un connazionale rifugiato nell’ambasciata d’Italia, a fronte dei 15 mila uccisi e 30 mila desaparecidos, e la differenza tra l’una e l’altra categoria consiste, conviene ricordarlo, nell’ulteriore martirio della vera e propria eliminazione fisica cui furono sottoposti i secondi, con lo strascico di famiglie che ancora oggi non riescono a fare i conti con quanto successo.
Quello che so è che una risposta bisogna trovarla. Innanzitutto, perché la dobbiamo al popolo argentino che ha subito e subisce ancora le conseguenze di atrocità, che forse i nostri rappresentanti politici dell’epoca, oltre che gli esponenti del nostro sistema produttivo, hanno collaborato a rendere possibile. Perché la dobbiamo a noi stessi, perché è evidente che, se in un’epoca di espansione economica mondiale uno Stato democratico accetta di sbarrare la porta non soltanto a chiunque sia in pericolo di vita ed esposto a sofferenze atroci per motivi politici, ma addirittura ai suoi stessi cittadini che versino in tali condizioni, allora non dobbiamo sorprenderci se quello stesso Stato, esprimendo una stessa cultura del potere, in tempi di recessione mondiale e di perdita di competitività della propria economia, si spinge fino a partecipare a vere e proprie avventure di guerra.
Gli Stati sono restii a fare i conti con il proprio comportamento passato, perché non amano legarsi le mani per il presente o il futuro. Ma il Belgio lo ha fatto, attraverso una commissione parlamentare che ha permesso la ricostruzione di quanto avvenuto in Congo sia ai tempi di re Leopoldo che in quelli, ben più recenti, segnati dalla uccisione di Lumumba. Lo stesso ha fatto la Svizzera, a proposito della sorte dei conti bancari delle vittime del nazismo, e qualcosa di analogo sta tentando, sia pure con difficoltà, il Vaticano a proposito dei suoi rapporti con il mondo ebraico
Ho a lungo sperato in una soluzione giudiziaria, ma come non pensare che è presumibilmente passato troppo tempo per poter arrivare ad una ricostruzione inoppugnabile di eventuali responsabilità penali, che già venti anni fa non furono riscontrate. Credo che, a questo punto, si debba piuttosto fare storia, ma questo sì, in maniera esaustiva. E spero che la società civile insieme alle forze politiche che sia in Italia che in Argentina comprendono l’importanza di queste tematiche, sappiano dare vita ad un meccanismo idoneo alla ricostruzione della verità.
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Clarín, Argentina
11.12.2004
DERECHOS HUMANOS: UN RECONOCIMIENTO DEL ESTADO ARGENTINO
Condecoran al cónsul italiano que salvó a decenas de personas en la dictadura
Es Enrico Calamai. Estuvo destinado en Buenos Aires entre 1972 y 1977. Ayer recibió en Roma la Orden del Libertador en el grado de Comendador.
Julio Algañaraz. ROMA CORRESPONSAL
Enrico Calamai, que fue cónsul de Italia en Buenos Aires entre 1972 y 1977, recibió el reconocimiento que merecía por parte de la Argentina: fue condecorado ayer, Día Internacional de los Derechos Humanos, en la sede de la embajada de nuestro país en Roma, con la Orden del Libertador en el grado de Comendador. El motivo: salvó a decenas de argentinos de las desapariciones y los campos de exterminio de la dictadura escondiéndolos y haciéndolos viajar a Italia con pasaportes italianos.
Este héroe de nuestro tiempo que enrojece de vergüenza cuando lo elogian, dijo a Clarín que tenía 27 años cuando llegó a nuestro país y cuando vio lo que ocurría sintió que no tenía otro remedio que "hacer algo" para salvar vidas, pues era un privilegiado como diplomático.
En el consulado italiano, en el centro de Buenos Aires, "no teníamos el privilegio de la extraterritorialidad, como en la embajada", donde cuando llegó la dictadura militar llegaron a blindar las puertas para evitar los asilos políticos. "Sin asilo político" se llama el libro que escribió Enrico Calamai, que debió afrontar una situación dramática con coraje e imaginación. "Querían impedir que ayudáramos a los perseguidos porque no querían que se supiera lo que estaba pasando en la Argentina", explicó.
"Nunca imaginé que por lo que hice hace tanto tiempo me iban a dar esta condecoración", afirmó emocionado, mientras la residencia del embajador de nuestro país, Victorio Taccetti, se llenaba de gente. Estaban, incluso, algunos de los hombres y mujeres que Calamai salvó y que el embajador Taccetti quiso que participaran activamente en la entrega de la Orden del Libertador, mientras un conjunto con bandoneón, guitarra y chica solista entonaban tangos y folklore para que todos se sintieran más cerca del país.
Calamai sigue creyendo con razón que Argentina vivió bajo un régimen de características hitlerianas, pero no acepta que él fue una especie de Oskar Schindler, el de la lista que salvó a tantos judíos de las garras del nazismo. "Mi orgullo es que todos los que vinieron a pedir ayuda pudieron ser salvados", explicó. ¿Fueron muchos? "No tantos", dijo.
Pero después contó que casi todos los días entraban dos o tres personas al consulado. Los perseguidos dormían en el consulado en una pequeña habitación y hasta eran escondidos en los armarios. La dictadura controlaba los teléfonos y las autoridades diplomáticas italianas no colaboraban para nada.
"Comenzamos a sacar gente por Montevideo porque había poco control en el Aeroparque. Cruzaban a Uruguay con la célula de identidad y se embarcaban a Roma con el pasaporte italiano". Otros dos héroes bastante olvidados colaboraban con el cónsul: Giangiácomo Foá, el corresponsal del Corriere della Sera en América latina, con sede en Buenos Aires, y Filippo Di Benedetto, representan de la central obrera CGIL y del PCI.
Calamai sostiene que ahora, con el presidente Kirchner, "la Argentina se esta refundando, tras vivir 25 años de tabla rasa; esta es la hora para terminar de abrir los ojos acerca de lo que pasó". La obsesión del cónsul, junto con Foa y De Benedetto, era trasmitir los nombres a Italia, para que a través de informaciones se supieran quienes eran los perseguidos, se presentaran interpelaciones parlamentarias y se obligara al gobierno de Roma a ocuparse.
"Los dos últimos muchachos que pude salvar antes de ser mandado de vuelta a Italia, donde el ambiente se había puesto muy pesado para mi, los tuve que acompañar a Río de Janeiro y verlos embarcar en tránsito a Roma. Fue casi un milagro", contó. Algunos de los argentinos que le deben la vida a Enrico Calamai y que estaban ayer son Giovanni Miglioli, Claudio Tognonato, Hérnan Varela y María Mesca, Piero Corguelutti, Daniel Ciolito. Y las familias Sartori y Gobulin.
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