Latina

Novembre in Brasile

29 dicembre 2004
Veronica Vicinelli

Arriviamo in favelas (qui lo chiamano, in maniera meno denigrante, barrio, quartiere) nel primo pomeriggio. Siamo ai margini della città, si intravede la foresta con la vegetazione più che lussureggiante tipica di queste zone e si espande il dolce profumo dei frutti tropicali. E’ inebriante.
Ci viene incontro Márcia Bordin, la coordinatrice della ONG “Istituição Comunitária e Beneficente Brasil/Italia”. La favelas “Baixada Fluminense” è un’area, nella periferia di Rio de Janeiro, abitata da circa tre milioni e mezzo di persone, per la maggior parte emigranti dalle campagne delle regioni interne del Brasile e giunti qui a partire dagli anni ’40, spinte dalla povertà rurale. In Brasile, su 170 milioni di abitanti, 55 sono poveri e 31 sono definiti miserabili.
Ci spiega Márcia, ma lo possiamo dedurre con i nostri occhi, che in questa zona degrado, abbandono e violenze di tutti i tipi, anche domestiche, regnano incontrastate. Parallele e disinteressate, quasi infastidite da tanto degrado, le vite sonnecchianti dei benestanti del centro città. E, come in ogni luogo dove regna la miseria economica, la violenza dovuta alla disperazione fa da padrona. I gruppi sociali più deboli, donne e bambini, pagano, come sempre, il prezzo più alto.
Entriamo nella “casa das Meninas”, casa di accoglienza per adolescenti incinta o madri in stato di abbandono che ha fondato Márcia: ci accolgono alcune ragazze-madri, chiamiamole così; in realtà molte sono bambine-madri, 13 anni appena, la più anziana ha 19 anni e due figli. Ognuna ha in braccio il suo bimbo o accudisce il bimbo di un’altra: si sostengono a vicenda in questa piccola comunità solidale, nata in mezzo all’inferno della miseria. Se li coccolano tanto, i bimbi, sono veramente l’unica cosa che hanno.
Ci mostrano con orgoglio le loro creature, ma anche le loro camerette e le stanze adibite alla loro crescita professionale (una scuola di cucito, la stanza dei computer e una sala allestita per insegnare il mestiere di parrucchiera). Intanto Márcia ci racconta, in disparte, le loro storie: “alcune sono figlie di prostitute, indotte a loro volta alla prostituzione, altre abbandonate, ancora bambine, dalla famiglia alla loro sorte, una è arrivata dal NordEst in un autocarro da trasporto e abbandonata incinta lungo il viaggio. Molte sono vittime delle “gentili” attenzioni di turisti europei o americani.” Arrivano in condizioni di indigenza, denutrite e malate e con forti traumi psichici. Il compito delle educatrici popolari nella Istituição Comunitária non è semplice: offrire a queste creature, profondamente ferite, un ambiente sereno di affetto, cura e rispetto: amore, in una parola.
Ci spiega Márcia quanto è importante per loro il sostegno delle nostre comunità in Italia: adesso queste ragazze non permettono più di essere vittime di soprusi, se qualcuno vuole umiliarle gli rispondono: “tu non hai diritto di maltrattarmi, io sono importante per gli italiani!”. Sapere che dall’altra parte del mondo, un popolo europeo “evoluto” le ritiene degne di considerazione crea in loro autostima, le fa sentire importanti.
Fa parte del progetto l’organizzazione di un centro per la donna, che offrirà vari servizi nell’area della salute (ginecologia, assistenza psicologica…) e organizzerà seminari e incontri sulla valorizzazione del ruolo sociale della donna (diritti, sessualità, contraccezione, prevenzione sanitaria, ecc..). “Uma mulher pode reivindicá-la direitas os souber!” insiste Márcia.
Ci salutiamo, con le ragazze che, cambiati i vestiti “da casa” e fatta la doccia, vanno alla scuola serale (alcune devono finire le elementari).
Alla sera Márcia ci accompagna a bere una caipiriña nella Rio “vecchia”, in un locale di samba. Ci tiene molto a definire le problematiche che sono alla base del degrado: “le ragazze sono vittime di fatto non solo del destino ma soprattutto della perversità di strutture economiche e politiche ingiuste: fanno parte degli esclusi sociali che oggi il neoliberismo produce nel mondo a milioni.” I suoi discorsi sono appassionati ed emotivi: “Le persone che appartengono ai ceti sociali elevati si assolvono dicendo "ma io lavoro!" e questo per loro è sufficiente, non si sentono in dovere di fare un’analisi critica dei meccanismi delle società odierne, di cui loro sono ingranaggi, e di cosa producono.”
“In un tempo, come il nostro, in cui assistiamo a un disastro sociale dovuto alle direttive neoliberali (passaggio dallo Stato sociale allo Stato minimo, privatizzazione di tutto) la democrazia e i diritti sociali vengono meno lasciando immense moltitudini nella precarietà. E’ da questa “via crucis” che nasce il fenomeno delle ragazze di strada”. Dalle sue parole è evidente che la questione politica per lei è di importanza primaria.
Salutiamo Márcia con un abbraccio. E con un angolo dell’anima che penserà a tutte loro. Sempre.


Il giorno dopo incontriamo Luigi, marito di Márcia, che ci porta al suggestivo Cristo del Corcovado. Luigi è impegnato con Márcia nella Istituição Comunitária ed insegna all’università: “Provo a comunicare ai ragazzi che con l’avanzare delle globalizzazione dei mercati basata su un modello che concentra la ricchezza su pochi, escludendo molti, assistiamo ad un aumento della distanza fra ricchi e poveri in tutto il mondo, soprattutto nelle periferie delle grandi città dei paesi chiamati “emergenti”. Le conseguenze delle riforme neoliberali le stiamo constatando: sfruttamento della mano d’opera e aggravamento della situazione di dipendenza ed emarginazione dei paesi periferici”.
E continua: “a ciò noi contrapponiamo 'l’opzione per i poveri', assumendo le loro lotte, come propone la Teologia della Liberazione”.
'L’uomo solidale', direbbe Padre Arturo Paoli, fondatore dell’altra missione che visiteremo in Brasile.
“Essere solidali non è dare solo il nostro superfluo, fare un poco di beneficenza, ma condividere angosce, lotte e speranze. E’ necessario inoltre procedere ad un’analisi critica del fenomeno degli esclusi, cercando soprattutto le cause strutturali, ingaggiandoci in forme di lotta e di resistenza, sempre in contatto con i movimenti sociali”.
Siamo arrivati nel frattempo alle splendide spiagge oceaniche a Nord di Rio. Sembra un altro mondo rispetto a ieri. Il sole sta tramontando, siamo tutti in silenzio davanti alle onde lunghe dell’oceano e alle parole di Luigi.


Due ore di volo interno ci portano a Foz de Iguaçu, conosciuta per le famosissime cascate di Iguaçu, dove una ventina di anni fa hanno anche girato il film “Mission” sulle missioni dei Gesuiti. Naturalmente rimaniamo allibiti davanti alle cascate, portentose e spettacolari. Giriamo per il parco naturale intorno alle cascate, la foresta tropicale sembra veramente inghiottire tutto, tanto è rigogliosa. Tucani e farfalle di tutti i colori più brillanti sembrano essersi radunati lì. Si intravedono delle isolette piene di palme in mezzo al fiume e alla cascata, inghiottite dall’umidità dell’acqua vaporizzata in seguito alla caduta. Inevitabilmente penso alla scena del film in cui il missionario Gesuita si arrampica sulla cascata per andare in mezzo agli indios Guaranì a suonare il flauto. Se mai è esistito un paradiso sulla terra, doveva proprio essere così.

A un primo sguardo Foz è una città che possiamo definire di "provincia", abbastanza anonima, con due o tre strade commerciali e quartieri più o meno dignitosi nella periferia. E questo è pressappoco quello che vedono i milioni di turisti che la transitano per visitare le cascate di Iguaçu, che distano pochi chilometri dal centro.
Credo sia proprio così, Foz ti fa vedere quello che vuoi vedere. Se cerchi le Cascate, la natura selvaggia, il confort e la simpatica città di provincia, questo vedrai, ma se vuoi sapere chi ci vive, perché ci vive, come vive, dove vive, se vuoi vedere dentro la città è necessario l'incontro con le persone. Questo sempre, ovunque.
E così abbiamo stretto mani, sorriso a persone che volevano conoscerci per relazionarsi e non per educazione. E queste persone ci hanno accompagnato a vedere l'altro volto della città, quello che comincia dove le strade finiscono, quello che esiste perché l'uomo ha la forza di vivere nonostante tutto.
Foz dietro le facciate delle strade più ricche nasconde 53 favelas. Ammassi di baracche, case di legno e lamiere, e di persone che sopravvivono: i figli delle speranze infrante. Si perché Foz è una città giovane, cresciuta troppo velocemente negli anni ottanta grazie alla costruzione della diga più grande del sud america, Itaipu, capace oggi di fornire energia elettrica per il 25% del fabbisogno brasiliano e il 90% di quello del Paraguay. Ma incapace di ringraziare quanti l'hanno costruita, venendo da ogni dove, e che oggi rimangono a vivere nascosti tra le piaghe della città.
All'epoca della mastodontica costruzione bastava buona volontà per trovare lavoro e vivere dignitosamente, ma oggi le cose sono molto cambiate. Le grandi opere sono ultimate, e per la manutenzione bastano poche persone, ma non le stesse, occorrono specializzate. Occorre aver studiato, nelle scuole che a Foz non esistono nemmeno. E così i nostri amici operai oggi vivono alla giornata o se ne sono andati, magari scordandosi mogli e figli.
Per fortuna le favelas sono accoglienti, si perché di nuovi poveri ce ne sono sempre, e allora si allargano, crescono, e diventano veri e propri laboratori dell'umanità perduta, capaci di trasformare un disgraziato in un delinquente, un deluso in un niente.
Queste favelas hanno accolto di volta in volta nuove ondate di disperati, come i brasiliani di ritorno dal Paraguay perché privati di tutto, o le donne sole e i bambini, quanti bambini.
Tutto questo per comprendere meglio il respiro affannato di questa città, schiacciata tra la cascata più bella del mondo, la diga più grande e i confini di Argentina e Paraguay.
I famosi Tre Confini che si possono vedere dalla riva dove l'Iguaciu affluisce nel Paranà, a sinistra l'Argentina a destra il Paraguay. Due ponti a unire questi tre mondi, questi tre volti di una stessa umanità.

Ed è proprio qui, nel cuore di questa umanità che, circa vent’anni fa, Arturo Paoli costruì la sua baracca. All’inizio era null’altro che una baracca in mezzo ai poveri della favela. Da allora la missione che ci ospita si è ingrandita (anche grazie a “ORE 11”, un’associazione di Roma che ha reperito i fondi) e si è consolidata: ha diverse strutture che ospitano numerose realtà. Nella zona periferica di Foz ci sono le case Lar (focolare). Qui i bimbi di favelas abbandonati, orfani o allontanati da genitori violenti vengono accolti in casa e accuditi da una coppia di educatori e ricevono così la cura, l’affetto materno e paterno che sono loro stati negati dalla sorte. Ogni coppia ha sei o sette bimbi e ragazzini da crescere, nutrire, mandare a scuola. Quando i ragazzi sono intorno ai 16, 17 anni passano alla casa della gioventù (Nosso Lar, dove siamo ospiti noi), ma il percorso dipende dalla maturità del ragazzo. Qui i ragazzi frequentano corsi professionali e di informatica: si cerca insomma di dare loro un futuro di indipendenza.

Qualche sera dopo il nostro arrivo, ceniamo in cortile a base churrasco (la loro tipica carne allo spiedo) insieme a Ivania, la coordinatrice del progetto, e alla sua famiglia, a Marlì, un ‘educatrice di Nosso Lar e a Roselda, una missionaria italiana. Ed è parlando con loro che entriamo un po’ più nella realtà dei poveri del Brasile. Ci spiega Ivania che il tessuto sociale delle favelas è tenuto in piedi ormai solo dalle donne, che si occupano dei figli e fanno miseri lavori che permettano almeno di mangiare. Gli uomini, spesso ubriachi, annientati moralmente dalla disoccupazione, si danno alla delinquenza, sfogando nella violenza, anche sulle donne e sui bambini, le loro frustrazioni. Le donne e i bambini non hanno diritti: ci racconta Ivania di una donna di 28 anni incinta per la nona volta, con sei figli spediti all’orfanotrofio, che non si azzarda ad usare contraccettivi perché al marito “sembra di mangiare una caramella con la carta”.

Ivania, quella sera si è sfogata un po’: quello che fa è appassionante ma a volte sconfortante. Metà dei i ragazzi che escono da Nosso Lar non ce la fanno a mantenersi dignitosamente e cadono nella trappola della delinquenza. Difficile resistere all’idea di un guadagno facile, quando non hai niente.
Poche sere dopo siamo di nuovo a chiacchierare nel cortile con Marlì e con qualcuno dei ragazzi, Luis, Joan Fernando, David. Uno di loro si appresta ad uscire, dorme già fuori alla notte ma dicono che non frequenti “buone compagnie”. Quando è ormai vicino al cancello Marlì lo chiama per nome e lo saluta: “vá com deus”. Un amorevole e limpido “vá com deus”. E mi tornano in mente le parole di Ivania….
Marlì, Luis, Joan Fernando, David, Roselda, Ivania….tutti i loro volti adesso sono impressi nella nostra anima. Sarà difficilissimo salutarli il giorno della partenza.

Dentro una delle favelas, la Morenita, dove Arturo Paoli si stabilì inizialmente, c’è adesso il centro “Associação Frataernidade Aliança” (AFA), che accoglie, durante il giorno, i bimbi che vivono in favela. C’è una scuola, il parco per giocare a calcio, il nido dove vengono assistiti e nutriti i bimbi più piccoli. La responsabile del progetto è una dottoressa spagnola, Tony López Gonzáles, che, tra le altre cose, insegna alle donne della favela a coltivare erbe medicamentose per produrre medicine naturali. Così, con pomate e sciroppi, si possono curare da soli. Quello che da noi è moda, da loro è necessità, perché non avrebbero i soldi per comperare le medicine.
Passiamo qualche giornata con loro, a giocare a calcio (allibiti guardiamo dei ragazzini di 8 o 9 anni fare delle acrobazie sportive da professionisti!), a giocare alla corda con le bimbe e a pranzare insieme. Ogni momento ci troviamo circondati da un nugolo di bambini, divertiti e incuriositi dalla nostra presenza. Sono bambini affettuosissimi.

Ci racconta Tony quali sono le condizioni dei bimbi che vanno a recuperare dalla favela: molti sono denutriti, gli sono state date da mangiare bucce di banana per lungo tempo. Una delle malattie più diffuse riguarda le vie respiratorie, perché bimbi di quattro anni non sanno ancora soffiarsi il naso, nessuno glielo ha insegnato. Per questo in AFA hanno capito l’importanza di comunicare con le loro famiglie (cioè le madri) e insegnare la cura dei bimbi e il rispetto dei loro stessi diritti. Una volta alla settimana le educatrici vanno di baracca in baracca a chiamare le donne, le riuniscono e parlano di diritti, sessualità, contraccezione. Cose molto basilari, tipo come infilare il preservativo, ma qui c’è veramente bisogno di tutto.

Per chi è qui da pochi giorni come noi, lo sconforto per le dimensioni della miseria è disarmante.
Ne parliamo con Tony, cerchiamo di cogliere nelle sue parole un qualsiasi segno di miglioramento per questa realtà, per questa umanità perduta. Lei allarga le braccia. Dice però “AFA è una testimonianza. Che si può vivere dignitosamente, che è possibile vivere con cura.”

La fotocopia di Foz nel versante argentino si chiama Puerto Iguaçu, città un tempo ricca di turismo e oggi povera a causa della terribile crisi economica della nazione. La crisi qui ha l'aspetto dell'abbandono, della sporcizia, del vuoto. La crisi argentina di pochi anni fa, infatti, è la dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, di come i grandi spostamenti di capitale finanziario internazionale, “l’alta” finanza, abbia conseguenze drammatiche “nel basso”, cioè nella vita delle persone comuni.

Dall’altra parte del triplice confine c'è Città dell'Este, in Paraguay. Chi è stato qui fino a poco tempo fa la ricorda come l'Hong Kong dei poveri, porto franco di tecnologia, profumi e sigarette ma anche di droga e di armi. Città capace da sola di sollevare il difficile bilancio di questa nazione, crollata anch’essa in seguito alla crisi della “sorella” Argentina.
Porto franco in crisi a causa dei vicini brasiliani, che hanno deciso di aumentare i controlli e far rispettare le regole doganali.
Si, insomma, si annuncia l'ennesima guerra tra poveri.
Infatti, di ritorno dalla visita alle rovine delle Missioni in Paraguay, ci capita di dovere passare, di sera, la frontiera col Brasile, nel bel mezzo della protesta contro l’inasprimento dei controlli doganali: blocco del confine, non si può passare con il pulmino. Attraversiamo il ponte sul fiume Paranà a piedi, un po’ solidali con questi poveri diavoli, contrabbandieri di lettori CD.

Argentina e Paraguay sono disseminate di rovine delle antiche comunità dei Gesuiti. La terra nella regione del Paranà è rossa, contiene ferro ed è quindi molto fertile. E il contrasto con il verde delle palme e delle piante tropicali è bellissimo.
Le rovine delle missioni spiccano, rosse anch’esse.
Le figure antropomorfe scolpite nei pavimenti o nelle colonne delle rovine hanno i tratti somatici degli indios, in segno di grande rispetto da parte dei Gesuiti.

Ci raccontano come queste missioni fossero un tempo floride, culturalmente ed economicamente.
Gli indios Guarnì, perseguitati e umiliati dai conquistadores, si rifugiavano spontaneamente nelle missioni, dove i Gesuiti insegnavano loro a scrivere (è proprio grazie a loro che l’idioma Guarnì, all’inizio tramandato solo oralmente, è arrivato fino ai giorni nostri ed è diventato la seconda lingua ufficiale del Paraguay). Non con l’imposizione ma con il metodo di “assimilazione”, gli indios imparavano la matematica, l’arte musicale e i lavori manuali. Queste piccole comunità erano autosufficienti dal punto di vista economico: sussistevano delle loro coltivazioni, dividevano i beni ugualmente tra la popolazione, come i primi cristiani. E naturalmente, per questo furono giudicate pericolose dai regni di Spagna e Portogallo: furono tutti trucidati nel 1730, con il benestare del Vaticano.
Adesso regna un grande silenzio e una grande pace davanti all’altare a cielo aperto.

Sulla strada di ritorno a Foz vediamo, ai margini della strada, alcune capanne fatte di arbusti e coperte da plastica nera, come i sacchi di immondizia. Sono gli accampamenti dei Sem Terra.
Il Brasile è povero perché è soffocato dal debito estero e perché la sua agricoltura è strozzata da trattati con gli Stati Uniti come l’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe) e il TLC (Trattato di Libero Commercio). Ma soprattutto, la maggior parte di terre sono in mano a pochissimo latifondisti che, aiutati da bande di paramilitari, impongono ai campesiños condizioni di lavoro indegne e salari insufficienti a sopravvivere.
Il Movimento del Senza Terra (MST) si batte da più di vent’anni contro le imprese multinazionali e i governi a loro subordinati che rifiutano di rispettare i diritti fondamentali degli esseri umani.
Nel modello di società per cui si batte l’MST assume un ruolo centrale la riforma agraria, associata ad un nuovo modello agricolo che garantisca un reddito agli agricoltori ed un futuro per chi vive nelle campagne, che così non sarà più costretto a sopravvivere a stento nelle periferie delle grandi città. In tal modo l’MST rappresenta i desideri e le speranze di 5 milioni di famiglie di lavoratori rurali senza terra che occupano latifondi. Esiste infatti una legge che afferma che il campesiño che dimostra di coltivare, da almeno due anni, un terreno di proprietà rimasto incolto per più di vent’anni, diventa padrone del terreno. Ecco perché si accampano, con le loro famiglie, sul terreno ai margini della strada. Per anni, in qualsiasi condizione.
Uno degli ultimi giorni incontriamo Marcial Congo, responsabile delle relazioni internazionali dei Sem Terra, ex frate francescano, ex rifugiato politico in Europa ai tempi della dittatura. Vive in una terra “liberata” dal latifondo, ufficialmente. Qui, una comunità di circa mille persone, di cui fa parte Marcial, vive del proprio lavoro rurale, vende solo le eccedenze e divide il ricavato equamente, manda i bimbi alla scuola della comunità e prega nella cappella comune, ognuno rispettoso del credo altrui.
“Il progetto della riforma agraria nella società” dice Marcial “risolverebbe secondo i Sem Terra, i problemi di lavoro, educazione, casa, salute e produzione degli alimenti per tutto il popolo brasiliano. I Sem Terra vogliono appena i diritti sociali elementari: il diritto di vivere con dignità, lavorare la propria terra senza dovere svendere le proprie braccia ai latifondisti, avere un salario capace di mantenere la famiglia, una casa per vivere e una scuola per i figli.”
“Quando Lula ci ha incontrato ci ha fatto capire che probabilmente non ce la farà a fare la riforma agraria, avendo il 90% del parlamento contro. Ci ha detto però di lottare per liberare altre terre e in quello lui potrà aiutarci, nel convalidare ufficialmente la proprietà delle terre liberate.”
“Il vero problema è che noi siamo immersi nel capitalismo, respiriamo capitalismo fin dalla nascita…”

La comunità mantiene le relazioni con gli altri movimenti organizzando incontri in una piccola sala congressi, affrescata da loro con i volti di Rigoberta Mechù, di Emiliano Zapata, del Che.

Marcial ci mostra anche un prato dove sono piantati 17 tronchi bruciati: sono i loro martiri, le persone morte per liberare quella terra, compreso un ragazzino di 16 anni, morto sotto le torture dei paramilitari al servizio del latifondista che possedeva la terra.
Purtroppo, pochi giorni dopo il nostro rientro in Italia, abbiamo saputo dell’uccisione di 5 campesiños Sem Terra, trucidati dai soliti squadroni della morte a servizio di un latifondista, in un’altra parte del Brasile.

C’è una grande croce di legno in mezzo a un prato: i movimenti sociali dell’America Latina hanno profonde radici nei movimenti cristiani di base e non sarebbero esistiti senza di loro. Esiste uno stretto legame tra la Teologia della Liberazione e molti militanti dell’MST: la CPT (Commissione Pastorale della Terra) in Brasile, spinta dall’opzione per i poveri, ha applicato le encicliche progressiste del Concilio Vaticano II e ha svolto un ruolo d’appoggio indispensabile per il movimento.

Cammino sul sentiero che dai campi ci riporta al pulmino. Penso che qui la gente si batte per quelle che i governi dei paesi del “primo mondo” chiamano utopie. Marcial si avvicina e mi chiede: “sai cos’è un’utopia? E’ l’orizzonte. Io ti chiedo di camminare insieme verso l’orizzonte. A un certo punto ci fermiamo e ci domandiamo se siamo arrivati, ma l’orizzonte è ancora là e allora ricominciamo a camminare. E intanto camminiamo insieme….”

Veronica Vicinelli

“Soprattutto siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia contro chiunque, in qualunque parte del mondo” (E. Guevara)

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