Testimonianze dal Messico: omicidi invisibili
E’ questa l’allarmante affermazione di Marijike Velzeboer, responsabile per i paesi Latinoamericani del Fondo di Sviluppo delle Nazioni Unite per la Donna (Unifem).
Il problema della violenza contro le donne intacca paesi come Messico, Guatemala, El Salvador, Hoduras, Bolivia, Costa Rica, Argentina e Colombia.
In Guatemala secondo dati ufficiali circa mille donne sono state uccise tra il 2001 e il 2004.
Tristemente famosi sono i casi di circa 400 omicidi di donne avvenuti negli ultimi dieci anni a Ciudad Juárez, nel nord del Messico.
Tutti i casi hanno in comune l’intollerabile negazione del diritto alla giustizia e al perseguimento dei colpevoli.
Nakar Leal e Ramona Morales sono attiviste messicane membri dell’associazione “Nuestras Hijas de Regreso a Casa” (Perché le nostre figlie tornino a casa) costituita da famigliari e amici delle vittime degli omicidi di Ciudad Juárez.
Abbiamo avuto modo di ascoltare la loro testimonianza durante un incontro pubblico (Roma, 3 dicembre 2004 - Casa Internazionale delle donne).
Nakar Leal, una ragazza sui vent’anni, prende la parola spiegando come è nata “Nuestra Hijas de Regreso a Casa.”
“L’associazione è nata nel 2001 dopo l’assassinio di Lidia Andrade che era una studentessa di mia madre. Mia mamma quando ha saputo questo fatto ha parlato con la madre di Lidia ed hanno deciso di iniziare una protesta per cercare che venissero chiariti le circostanze sull’omicidio. Una protesta rivolta nei confronti dello Stato di Chihuahua e più precisamente nei confronti del governatore dello Stato a cui hanno chiesto udienza. Ma il governatore non ha voluto parlare loro. Allora sono andate a Città del Messico dove hanno svolto altre azioni di protesta. Qui hanno ricevuto l’appoggio di alcune organizzazioni e hanno costituito l’associazione.”
Ciudad Juárez, spiega Nakar Leal, si trova ai confini con gli Stati Uniti, conta 1.800.000 abitanti. Molti poveri delle zone del sud e del centro Messico migrano in questa città in cerca di lavoro e nella speranza di una vita migliore.
Il tasso di disoccupazione rimane basso per la presenza di centinaia di maquillas.
Le maquillas sono fabbriche di assemblaggio, generalmente di proprietà straniera, che sfruttano il basso costo della manodopera femminile che viene sottoposta a ritmi di lavoro pesanti in condizioni di sicurezza estremamente scarse.
“Le vittime degli omicidi, più di 370 in dieci anni” spiega Nakar “hanno generalmente caratteristiche simili: sono donne giovani, povere, lavorano nelle maquillas. Lottano contro mille difficoltà ogni giorno per guadagnarsi da vivere. Spesso vivono sole perché hanno dovuto lasciare la loro famiglia per trovare lavoro.”
“Quando si segnala la scomparsa di una donna in Ciudad Juárez non si può farne denuncia se non dopo 72 ore. I familiari delle vittime si presentano alle autorità, ma queste per prima cosa sminuiscono i loro timori sostenendo che probabilmente la figlia sarà scappata con il ragazzo e che tornerà. I familiari naturalmente perdono fiducia nelle autorità e si mettono alla ricerca del congiunto autonomamente.”
“Quando il cadavere di una donna assassinata viene ritrovato, presenta spesso tracce di tortura e di violenza sessuale. A volte il corpo è irriconoscibile perché già ridotto ad una scheletro. Molti corpi di donne non possono essere identificati perché vivevano sole. I vicini o le persone che le conoscono, come i compagni di lavoro, non possono presentare denuncia di scomparsa perché non sono familiari.”
Nakar si interrompe e lascia che l’interprete traduca. Ha l’aria di chi ha detto qualcosa che non avrebbe mai voluto dover dire. Poi riprende, risoluta.
“Quando i familiari ritrovano la persona, della propria famiglia, assassinata chiedono naturalmente giustizia. Chiedono che le autorità facciano quanto è dovuto. Che venga cercato l’assassino.
Le autorità rispondono in genere che l’assassino può essere chiunque perché la vittima potrebbe essere una prostituta, potrebbe aver avuto contatti con il mondo del narcotraffico, oppure essere una drogata e quindi essere morta per overdose. Questa è la fase a partire dalla quale le autorità non agiscono”.
“Noi, membri dell’associazione, siamo costantemente oggetto di minacce e pressioni perché si smetta di svolgere la nostra attività. Ci sono madri che sono state picchiate. La mia famiglia ha ricevuto minacce di morte. Non si vuole che noi divulghiamo questi fatti all’esterno. Siamo viste e additate come le colpevoli del fatto che Ciudad Juárez sia un posto brutto dove vivere.”
“Io stessa ho dovuto lasciare l’università. A questo punto non ho più alternative per quanto riguarda il mio futuro. Ci troviamo in una situazione molto difficile anche perché siamo sempre oggetto di sorveglianza.”
“Neanche i mezzi di comunicazione ci appoggiano. Abbiamo ricevuto il sostegno unicamente da una giornalista che è stata al nostro fianco e che ha svolto molte attività. Ha scritto anche delle pubblicazioni che riguardano i casi di cui ci occupiamo. Il risultato è stato che hanno tentato per tre volte di sequestrarle la figlia, una bambina. Alla fine ha dovuto cambiare lavoro e adesso non è più in grado di darci un appoggio diretto.”
“La TV non ci appoggia per niente. La società ci respinge. Tutto ciò avviene perché dietro a questi fatti ci sono delle persone potenti che le autorità proteggono. Oltretutto circolano anche delle voci secondo le quali le madri approfittano di questa situazione e lucrano sul dolore facendosi dare fondi dalle associazioni.”
Il fatto che le autorità non siano riuscite a risolvere questi casi ha portato a varie ipotesi riguardo i colpevoli. Si parla del coinvolgimento di trafficanti di droga, del crimine organizzato, di serial killer che vivono degli Stati Uniti.
Si pensa a pratiche sataniche, al traffico di organi, al traffico di snuff video (le ragazze potrebbero essere state coinvolte in questo tipo di film hard alla fine dei quali le protagoniste vengono uccise).
Si teme anche una sorta di emulazione misogina che trasforma queste uccisioni in una ossessione criminale di desiderio di emulazione.
Sta di fatto che l’incertezza nelle indagini alimenta inevitabilmente lo stato di insicurezza delle cittadine e dei cittadini.
Nakar termina il suo intervento chiedendo sostegno:
“La nostra unica speranza perché si raggiunga una soluzione del problema è l’appoggio e il sostegno a livello internazionale. Chiediamo che si cerchino soluzioni a livello internazionale. Per esempio attraverso la pressione che i governi di altri paesi possono esercitare nei confronti del nostro governo perché appunto venga fatta giustizia. Perchè le nostre figlie, le nostre donne smettano di scomparire e di essere assassinate. L’ultima scomparsa è stata il 25 novembre: ironia della sorte proprio nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Noi non vogliamo che altri corpi continuino a scomparire. Vogliamo che smettano. Che i responsabili delle autorità che non sono intervenute vengano puniti. Vogliamo che qualsiasi funzionario che non abbia fatto il proprio dovere, che è quello di far rispettare la legge, quindi fare giustizia, venga punito.
Intanto cambiano i procuratori, cambiano i governatori ma non succede nulla. Queste persone anzi si permettono di burlarsi dei familiari delle vittime e si permettono di mettere in discussione e di sollevare dubbi sulla condotta delle donne uccise.
Ci sono dei programmi di prevenzione che vengono attuati, ma noi vogliamo sottolineare che non è un problema di sicurezza ma è un problema di impunità, cioè non si vuole agire.
Noi sappiamo che soltanto attraverso la giustizia si potrà porre fine all’impunità”.
Prende la parola Ramona Morales, madre di Silvia Rivera Morales, scomparsa il 7 luglio 1995.
Porta appesa al collo la foto di sua figlia, una giovane ragazza.
Racconta di quel terribile giorno quando sua figlia (studentessa/lavoratrice) non rientrò a casa. La pena dei familiari, l’angoscia nel cercarla ovunque: bar, discoteche, ospedali, stazioni, aeroporto.
La trafila in procura, il meccanismo investigativo che non poté iniziare se non dopo 72 ore (decisive per salvare la vita alle donne rapite).
I poliziotti che non indagavano e che alle domande dei familiari opponevano il silenzio con la motivazione di non voler ostacolare le indagini dando informazioni.Il ritrovamento casuale del cadavere di sua figlia dopo due mesi.
Alterna momenti in cui la voce si fa dolce quando parla di sua figlia a momenti in cui non sa trattenere l’indignazione.
“In quello stesso periodo erano scomparse altre tre ragazze. E allora noi madri ci siamo cercate, ci siamo conosciute, ci siamo unite e abbiamo continuato insieme a fare le ricerche. Abbiamo continuato a recarci dalla polizia per parlare con il procuratore. Ma il procuratore ci diceva che le nostre figlie facevano la doppia vita a nostra insaputa, che noi eravamo ignare delle compagnie che frequentavano. Mi hanno detto che mia figlia era una prostituta, che aveva molti soldi. Addirittura il pubblico ministero ha iniziato una sorta di indagine sul fatto che mia figlia possedesse dei soldi. Ma quei soldi le erano stati dati dai fratelli che la aiutavano negli studi. Anche io cercavo di aiutarla. Sono passati nove anni da allora e le autorità hanno fatto sempre orecchie da mercante. Sono state sorde di fronte a questo e ad altri casi. Per nessuna delle donne scompare è stata fatta giustizia.
Ci è stato anzi detto e ripetuto che l’attività delle nostre figlie era quasi una giustificazione o comunque una spiegazione del fatto che venissero assassinate.
Io chiedo alle associazioni dei diritti umani che ci aiutino perché vengano puniti i funzionari che non hanno fatto niente per il nostre figlie. Io chiedo il vostro aiuto perché a Francisco Barrios sia impedito di presentarsi alla candidatura della presidenza del Messico. Gli sia impedito di farlo perché ci ha ignorato costantemente: me, e le altre madri.”
(ndr Quando sono iniziati gli omicidi il governatore dello stato di Chihuahua era Francisco Barrios del Partito d’azione nazionale -Pan ).
Si interrompe, poi conclude a mezza voce.
“Perché voi non sapete cosa è questo calvario per me e la mia famiglia. Perché non solamente è morta mia figlia, ma tre mesi dopo è morto mio marito. E’ morto di tristezza. E io sono rimasta sola con i miei tre figli.”
Testimonianze così forti della tragica dimensione umana dell’abuso dei diritti umani delle donne rivendicano un impegno costante di tutti nella solidarietà e nella continua denuncia fino a che si ponga fine all’impunità
Amnesty International si impegna all’interno della Campagna Internazionale “Mai più violenza sulle donne” a dare sostegno e voce a queste donne ammirevoli che a rischio della loro stessa vita chiedono a gran voce giustizia e la fine dell’impunità.
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