Colombia: un ricordo di Luis Eduardo Guerra, leader della Comunidad de Paz di San Josè de Apartadò, ucciso dall'esercito
1 marzo 2005
Gloria Mena
Tradotto da per
PeaceLink
Nel convulso decennio del '50, la famiglia di Luis Eduardo, così come molte altre, dovette trasferirsi a San José de Apartado. Fuggivano dal regime
di terrore che i chulavitas[1] avevano stabilito nelle terre liberali
dell’ occidente antioqueño, di Dabeiba, il distretto della leggendaria
guerriglia liberale di Caparrusia. Giunsero a San José de Apartado con l’
illusione di poter iniziare una nuova vita. Quella nuova vita sognata da molti contadini
e che, invece, si trasformerà presto in una lotta costante contro
una natura inclemente e contro la solitudine più assoluta dovuta alla
totale assenza di uno Stato incapace di far sentire la sua presenza nei territori di frontiera. Luis Eduardo imparò cosa fosse un massacro all’età di cinque anni, quando
nel distretto della Resbalosa l’esercito torturò e assassinò quindici persone
sospettate di appartenere a organizzazioni comunitarie. Successivamente, la morte dei suoi compaesani sarebbe diventata un fatto normale all’interno delle assurde dinamiche di guerra di Urabà. Vivere a San José de Apartado, terra di importanti
organizzazioni comunitarie e luogo di origine del V Fronte delle
FARC[2], sembrava un motivo sufficiente per essere sospetatti da parte dell’esercito. Successivamente, divenne anche un territorio da liberare
delle ACCU[3], che fondarono la loro strategia di pacificazione nell'attacco alla
popolazione civile inerme che “sembrava appoggiare la guerriglia”. Per
semplici sospetti, per giudizi non comprovati, Luis Eduardo vide dunque morire
i suoi vicini, i suoi familiari, i leader delle giunte di azione comunale e
della cooperativa, i militanti della UP[4]… e i suoi amici. In ricordo di quegli amici, dei morti che riposavano nelle terre di San José, Luis Eduardo e altre 350 persone che si rifiutavano sia di spostarsi sia di morire, decisero di dichiararsi neutrali di fronte ai diversi attori della guerra. “Volevamo dimostrare che a San José
la vita era possibile”, ripeteva continuamente Luis Eduardo. Diceva anche che, con il processo della comunità di pace, sperava che i suoi figli avrebbero avuto una vita migliore della sua, una vita senza la violenza di cui egli aveva preso coscienza fin da quando aveva cinque anni. A partire dal 1997 fu dunque coinvolto nel processo della
comunità, fu sempre membro del consiglio interno, viaggiò in molte parti del
mondo, denunciando la situazione di San José, ideò molteplici iniziative
per migliorare la qualità della vita di una giurisdizione completamente oppressa
dalla guerra…
Il processo della comunità di pace e la possibilità di resistere
alla guerra erano troppo attraenti per una studentessa di
sociologia che, malgrado il pessimismo appreso in otto semestri, contemplava
la possibilità di una soluzione creativa al conflitto. Pensava che con
queste esperienze avrebbe potuto contraddire il principio sociologico
dalla determinazione degli attori da parte delle strutture. Pensava
che avrebbe potuto dimostrare che attraverso l’azione degli attori
fosse possibile cambiare un po’ il mondo. Me lo dimostrò Luis Eduardo, in tre conversazioni. Benché non avesse letto il Capitale, i sofisticati Studi su Urabà, o i più autorevoli trattati sulla guerra, gli era molto chiaro quello che stava succedendo a San José. In tre conversazioni mi insegnò più di qualsiasi professore in quegli otto semestri… Ogni volta che lo intervistavo mi rendeva nervosa perché non è
frequente trovarsi di fronte a simili essere umani…
Il 21 febbraio, quando Luis Eduardo ritornava con la sua famiglia
nella sua proprietà nel distretto di Mulatos, fu catturato dalla brigata XI.
Le azioni dell’esercito nella zona si erano inensificate dopo gli
attacchi delle FARC a Mutata. Il 22 febbraio, il fratello di Luis Eduardo
si imbatté in una fossa comune dove riposavano i corpi di Luis
Eduardo, della sua famiglia e di altre quattro pesone: Alfonso, Sandra e i suoi due
figli di due e sei anni. I membri della comunità iniziarono allora
la ricerca dei corpi, della verità dei fatti, della dignità
per i loro morti… Si diressero verso la Resbalosa, lo stesso distretto in
cui era avvenuto quel massacro di cui, per la prima volta, ebbe notizia Luis Eduardo.
Nessun notiziario ha parlato di questo massacro, sembra che
i discorsi del presidente rivolti al resto del mondo, la candidatura agli
Oscar di Catalina Candido, il destino dei partecipanti all’Isola
dei Famosi o la partita dell'Once Caldas[5] risultino molto più
rilevanti del massacro di due famiglie contadine. Si sono meritate solo due
piccoli trafiletti sul Tempo e sul Colombiano e un breve riferimento in qualche
catena radiofonica. I media hanno parlato del massacro di sette contadini
e già… sette contadini senza volto, senza storia… forse senza
importanza per una società che si è già abituata a queste morti.
Per questo ho voluto scrivere queste pagine, che raccontano una storia troppo familiare e perfino noiosa per i colombiani che hanno avuto, fin dai loro primi anni di vita, consapevolezza degli assassinati e dei morti.
Immagino che questi sette morti possano essere una cifra in più per avvalorare i sofisticati modelli dei nostri specialisti della violenza… ma questa, per me, è stata la morte di un amico, di un maestro, di una di quelle personalità celebri e, allo stesso tempo, anonime dell’umanità… Credo che quei “sette contadini”, “sette civili”, “sette presunti guerriglieri” avessero un volto, un nome. “Luis Eduardo, Deyner, Ballanira, Alfonso, Sandra, Santiago e Natalia”, avevano una storia… Perciò non può essere un
fatto normale che li abbiano massacrati, per questo non possiamo continuare ad abituarci a che ciò succede.
Forse questa è la cosa meno professionale che abbia scritto, soprattutto se si
considera che i lettori sono studiosi esigenti di scienze umane. Forse l’articolo avrebbe dovuto affrontare le complesse correlazioni di forza a Urabà, la strategia governativa di sicurezza democratica, l’apparente abbandono del ripiegamento da parte delle FARC, le difficoltà della neutralità in seno a contesti violenti…
Forse il tema della violenza risulta troppo banale per gli esperti ricercatori e forse si accuserà la mia scarsa “neutralità di valutazione”… Ma scrivo solo come una studentessa che vuole condividere il dolore e l’impotenza (così poco razionali!!!) che ha provato incappando nel suo esercizio monografico proprio in occasione della morte di un amico e non di un semplice
oggetto di studio.
Note: [1] Gruppi armati del partito conservatore che negli anni ’50 commisero atroci massacri contro gli aderenti del partito liberale.
[2] Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia
[3] Autodifese Contadine di Cordoba e Urabà
[4] Unione Patriottica
[5] Squadra di calcio colombiana
traduzione di Chiara Manfrinato per www.peacelink.it
Il testo e' liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la
fonte e l'autore
[2] Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia
[3] Autodifese Contadine di Cordoba e Urabà
[4] Unione Patriottica
[5] Squadra di calcio colombiana
traduzione di Chiara Manfrinato per www.peacelink.it
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Parole chiave:
colombia
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