La scrittura come un remo
LA SCRITTURA COME UN REMO
In questi giorni ricorre il terzo anniversario della morte di mia figlia.
Lia è morta improvvisamente un mattino d’ottobre.
E’ uscita per andare a scuola e non è più tornata.
Aveva 16 anni.
“Un figlio non può morire” recita il titolo di un libro[1].
E’ vero.
Un figlio non dovrebbe morire.
Mai.
Perché è contro natura.
Perché non esiste.
Punto.
Eppure succede. E anche molto spesso.
E allora che si fa?
Si buttano i remi in acqua e si inizia a remare. Come dice Isabel Allende,[2] siamo su una zattera in un fiume con la sua corrente, la sua velocità, i suoi scogli, mulinelli e altri ostacoli che non possiamo controllare. L’unica nostra arma è un remo, un semplice pezzo di legno per governare l’imbarcazione sull’acqua.
Dalla nostra abilità dipende la qualità del viaggio. Come a dire: non tutto è scritto, non tutto è predeterminato. La nostra libertà – come diceva Sartre – sta nello scegliere ‘come’ reagire a quello che ci succede.
Per me tutto questo ha significato affrontare l’indicibile dolore per la morte di mia figlia, anche con la scrittura. In quel periodo ero in piena formazione autobiografica alla LUA e, Provvidenza ha voluto che dovessi aggiornare la mia autobiografia.
E’ così ho scritto un intero capitolo a lei dedicato.
E poi c’era da preparare un saggio. E io, naturalmente, ho scritto della morte.
E poi le sollecitazioni settimanali di scrittura e io – sempre, sempre – scrivevo del mio dolore, che era così forte, così acuto, così bruciante da togliermi il fiato.
La scrittura è stata il mio remo, con il quale ho iniziato piano piano a navigare nel mio fiume di dolore. Un remo che mi ha permesso di non andare alla deriva, che ha dato voce e parole a ciò che parole e voce non può avere. Che mi ha aiutata a trovare un significato – tutto mio e solo mio – a quanto era successo. Che mi ha permesso di rialzarmi in tutta la mia dignità dopo che un gigantesco tsunami aveva travolto la mia famiglia.
La scrittura mi ha permesso di iniziare la via di elaborazione del lutto. Perché il lutto è un percorso, una strada, un processo, non una condizione statica, rigida e immobile.
Possiamo scegliere. Scegliere come reagire a quanto ci è successo. Possiamo diventare protagonisti di resilienza. Anche noi, come il metallo, possiamo assorbire i colpi che la Vita ci assesta, senza andare in frantumi.
Per me la scrittura è stata strumento di resilienza e ha generato minuscole oasi di pace e serenità in un deserto di costernazione.
Penso che il nostro dovere sia quello di Vivere e non sopravvivere, di continuare a Vivere anche di fronte ai lutti più gravi. Come esseri umani noi siamo chiamati a Vivere.
Poco tempo dopo la morte di Lia scrivevo: “Io non voglio essere la “madre che ha perso un figlio” da commiserare e compatire. Non penso che Lia vorrebbe vedermi annientata dal dolore della sua perdita e io non voglio darle questa enorme responsabilità: rinunciare ai miei sogni e ai miei progetti per vivere all’ombra del mio lutto. Purtroppo ci sono donne e uomini che di fronte a questi immensi dolori smettono di vivere, anche se continuano a respirare.
Io non voglio che questo accada.
A me e alla mia famiglia.
Lo devo a Lia e alla sua grande forza e dignità.”
La scrittura è stata ed è un balsamo per il mio cuore spezzato.
Con la penna ho perlustrato nuovi territori che diversamente non avrei visitato.
Luoghi sconosciuti, emozioni impalpabili, frammenti indicibili.
La scrittura mi ha permesso di trovare parole.
Parole di lievità e speranza.
Parole che spesso hanno cozzato col mio dolore crudo e bruciante.
Parole che amo leggere per il sollievo che mi danno.
Parole che mi hanno aiutata ad alzare lo sguardo e a pensare, in termini diversi, a qualcosa che è immensamente più grande di noi.
Parole che mi hanno aiutata a inchinarmi di fronte al Mistero.
Saluzzo, 13 ottobre 2011
Cilla
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