Il mio diario
Ogni virus teme l'arcobaleno
Fuori c’è il nemico invisibile. Uccide. Sappiamo dove colpisce, ma non come disarmarlo. Non ancora. Ci stiamo odiando e ci stiamo amando. Come formiche, attendiamo il calcio al sasso che ha coperto l’ingresso della galleria.
19 marzo 2020
Gabriella Bolognini
Uccide.
Sappiamo dove colpisce, ma non come disarmarlo. Non ancora.
Il prezzo della salute è onnicomprensivo di alcuni disagi chiamate precauzioni. Bisogna aver paura, insomma! Io non ci sto riuscendo. Son decisa a non dedicare tempo a qualcosa di più piccolo ed ignorante di me.
Aspetterò. Ed ovviamente, pochissima tv.
Insomma, stiamo entrando ed uscendo dalle stanze, ma altrettanto dagli ospedali. Coloriamo grafici. Stiamo mangiando. Stiamo ingrassando. Stiamo pure morendo, ma non si può assistere ai funerali.
Ci stiamo odiando e ci stiamo amando. Di fatto, ci stiamo sopportando e, magari, tra nove mesi, sulle porte compariranno nastri rosa e celesti, più di quanti non siano quelli viola.
Come formiche, attendiamo il calcio al sasso che ha coperto l’ingresso della galleria.
La mia vita non è cambiata granché, se non per il fatto di esser in ferie. Mi sembra che ora tutti stiano semplicemente vivendo le mie giornate. Non sono più una persona diversa. C’è immobilità.
La pandemia, però, non ha fermato tutto: alcuni operai continuano a toccarsi, a sporcarsi, costretti a farlo o costretti ad avere paura di perdere il posto di lavoro più della vita. Oltre il parapetto, vedo le prime ed uniche persone della mia giornata: una squadra di muratori. Il sole stona con la condizione di prigionia, così la mia terrazza è diventata quanto di più importante abbia: è il mio cinema! Alzo il braccio in segno di saluto e l’omino col berretto risponde. Credo siano tre uomini. Il capo parla meno, ma decide l’umore dei restanti.
Quando ho acquistato il mio appartamento, tredici anni fa, affacciandomi, intravedevo movimenti lentissimi e schivi di due donne dai capelli bianchi. Età indecifrabili. Mani che percorrevano il perimetro freddo della veranda, per non inciampare. Avevano abitato quella casa per l’intera vita, al servizio di signorotti trasferitisi poi in una città lontana, probabilmente al Nord. Quando non fu più necessario il loro lavoro, furono lasciate lì, ad invecchiare tra quelle mura. Difficile indovinare che fossero madre e figlia e che la più malconcia fosse nata dopo. C’è un momento, talvolta impercettibile, in cui le differenze si perdono ed i ruoli si alleggeriscono. Per assurdo, dalle membra, emergono solo il carattere e la forza di volontà. Così come le vedevo comparire all’improvviso, silenziose come lucertole, allo stesso modo, non mi accorsi del tempo della loro assenza. I grembiuli e gli strofinacci restarono appesi per anni. Ogni sole ed ogni pioggia li videro e consumarono. Forse, divennero polvere, come quelle due teste bianche.
Gli aranci continuarono a fruttificare, il canneto superò vecchi confini e l’erba si mischiò ad ogni cosa, vivente e non vivente. Ogni infisso cigolò la propria solitudine ed i topolini crearono percorsi nuovi, illeciti, inoltrandosi in qualunque pertugio. Trapezisti meravigliosi, sui logori fili elettrici che cingono il piano superiore. Arrampicatori incredibili, nascosti tra le fronde della palma, a cui portavano vibrazioni di un piacere segreto, in cambio dei suoi frutti.
È un altro giorno.
Gli operai non ci sono. Lo scivolo di legno è stato smontato. Ora che non ho più panni da stendere, non avrò nulla che si possa impolverare. Eppure, prima, son certa di aver sentito qualcosa: credo fosse un martello, con un tempo sordo, monotono. Rumore d’uomo, insomma. Mi chiedo come sia la strada. Potrei uscire per ritirare i farmaci, ma forse è meglio aspettare che dal lucernario arrivino dei passi, o un abbaio. Una rassicurazione insomma.
Cerco il telefono. Ho paura di me stessa quando non ne ho. Non capisco: è passato solo un giorno da quando ero felice. Oggi non sto come ieri e tra un’ora non starò come ora.
Ecco, è la festa del papà!
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