L'AUTORE è docente di Etnologia all’Università di Bari. Ha scritto numerosi saggi tra i quali L’imbroglio etnico (Bari 2000) con Gallissot e Kilani. È curatrice e coautrice de L’inquietudine dell’Islam (Bari 2002).

Estranei e nemici Discriminazione e violenza razzista in Italia

Prefazione di Annamaria Rivera

Copertina libro

L’idea che ha ispirato questo libro discende da un’annosa riflessione teorica sul razzismo e sulle sue metamorfosi attuali, che mi induce a ritenere che esso non possa essere rubricato come epifenomeno, come espressione «sovrastrutturale», in definitiva secondaria, dei rapporti di produzione, come pura e semplice ideologia che riflette e legittima i rapporti di classe e lo sfruttamento. La tendenza, talvolta di pretesa ispirazione marxista, che riduce il razzismo a ideologia esterna o estranea all’interazione sociale, che avrebbe l’unica funzione di giustificare lo sfruttamento e il dominio, finisce per alimentare, mi sembra, quella sottovalutazione del fenomeno razzista che connota il contesto italiano.
La debole reattività sociale nei confronti delle espressioni razzistiche anche le più aperte e la diffusa indifferenza morale, prima che politica, verso lo stillicidio quotidiano di discorsi, pratiche, atti di discriminazione e razzismo rendono infatti ancora più temibile nel nostro paese questo fenomeno. Il quale, per poter essere efficacemente studiato e contrastato, esige che lo si analizzi per ciò che è: non è solo un’ideologia – cioè un insieme di idee, opinioni, rappresentazioni, stereotipi, pregiudizi – né solo un sistema di idee che orienta l’azione, ma è esso stesso un concreto rapporto sociale, che può inverarsi nelle forme e nei gradi della discriminazione, della segregazione, del rifiuto, del disprezzo, dell’aggressione. Questo specifico rapporto sociale è sorretto a sua volta da un potente apparato simbolico che svolge una funzione performativa, cioè in grado di agire direttamente sul sociale, producendo e riproducendo la discriminazione, l’ineguaglianza, la dominazione.

Ben analizzato dagli studiosi è il meccanismo di causazione circolare che, in questo specifico campo, lega le idee e le rappresentazioni ai rapporti sociali: alla base della discriminazione e degli atti razzisti vi è certo un’ideologia, esplicita o implicita; ma, quando gli atti di razzismo si moltiplicano e quelli di discriminazione si generalizzano e si routinizzano, fino a diventare abituale modalità di relazione sociale, amministrativa, politica con i «minoritari», non fanno che rafforzare le immagini negative degli altri e la percezione di essi nei termini di gruppi vulnerabili, immagini e percezione che a loro volta rafforzano la xenofobia e possono incrementare il razzismo.
È esattamente questo il meccanismo che oggi vediamo in atto in Italia, e non solo a causa dell’avvento di un governo di centro-destra di cui il minimo che si possa dire è che ha incorporato imprenditori politici del razzismo. La vicenda politica italiana mostra come la propensione a essere indulgenti verso gli umori xenofobici serpeggianti nella società, addirittura ad alimentarli o compiacerli per trarne vantaggi sul piano elettorale, sia una tendenza che, sebbene perfettamente incarnata nella destra nostrana, per alcuni versi appare trasversale agli schieramenti politici. Ugualmente trasversale – anche se interpretata con accentuazioni diverse – è l’ispirazione di fondo alla base delle politiche dell’immigrazione, nazionali ed europee, che muove dal presupposto, accolto come un dogma, che l’immigrazione sia un’emergenza e pone l’accento anzitutto sulla cosiddetta tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, sul contenimento dell’immigrazione e sul controllo, disciplinamento, repressione dei migranti, piuttosto che sulla loro integrazione, sul rispetto dei diritti universali, sull’estensione dei diritti di cittadinanza. E comune è quella ideologia, raramente messa in discussione, che naturalizza la nazionalità, ne fa un feticcio o una sorta di dono di natura, dal quale discenderebbero diritti e privilegi esclusivi, non condivisibili con gli stranieri presenti nel proprio territorio. È questa, si potrebbe dire, la madre di tutte le discriminazioni: la distinzione fra diritti dei «nazionali» e diritti degli stranieri. Che si tratti di una discriminazione perfettamente legale non cancella il fatto che il diverso trattamento riservato agli stranieri, l’applicazione nei loro confronti di misure di polizia, pratiche di internamento, espulsioni di massa violino clamorosamente i principi di libertà e uguaglianza solennemente proclamati nelle Dichiarazioni universali.
V’è nondimeno un sovrappiù che rende paradigmatico l’attuale contesto italiano. Il netto peggioramento della legislazione sull’immigrazione, attraverso un insieme di norme integrative o sostitutive che ne rafforzano il versante repressivo e che in definitiva concepiscono il migrante come semplice merce-lavoro, subordinando la legittimità e la durata del soggiorno al contratto di lavoro, contribuisce a rafforzare il meccanismo circolare cui si faceva cenno. Queste norme, infatti, alimentando il processo di clandestinizzazione, limitando il diritto d’asilo e i ricongiungimenti familiari, militarizzando la strategia contro gli ingressi irregolari, riservando ai soli non-comunitari misure quali i «rilievi dattiloscopici», moltiplicando i centri di detenzione amministrativa, rendendo routinaria la pratica delle espulsioni collettive, oltre a peggiorare le condizioni di esistenza degli stranieri, ne incrementano le rappresentazioni negative, soprattutto l’idea già corrente di una presenza abusiva e minacciosa.
D’altra parte, i discorsi e gli atti discriminatori e razzisti, non poche volte fomentati o compiuti da politici e amministratori di partiti al governo, si vanno a tal punto moltiplicando e banalizzando che il razzismo rischia di divenire idioma culturale del Belpaese. Un idioma costantemente rafforzato dal ruolo svolto dai mezzi di comunicazione di massa, potenti ripetitori e amplificatori del senso comune più degradato, che da essi viene legittimato e incrementato.
È doveroso aggiungere che un tale idioma culturale non può che avvantaggiarsi della temperie presente che vede nella guerra preventiva e permanente uno dei suoi elementi costitutivi. Dopo l’11 settembre, la cosiddetta lotta al terrorismo internazionale ha prodotto non solo una drastica accentuazione del controllo poliziesco, ma anche legislazioni di emergenza che tendenzialmente cancellano le garanzie democratiche e prendono di mira soprattutto gli stranieri provenienti da paesi a maggioranza musulmana. Non è un fenomeno inedito: a tutte le guerre si accompagna la propensione a costituire un nemico interno, stigmatizzato o addirittura perseguitato come complice soggettivo od oggettivo del nemico esterno. Oggi, però, è la stessa evanescenza del nemico ad alimentare una diffusa e pervasiva «nemicizzazione» di chiunque sia reputato estraneo all’Occidente.
In Italia, l’islamofobia e il pregiudizio anti-musulmano, che già rappresentavano una componente ben affermata dell’intolleranza nostrana grazie all’opera svolta soprattutto dalla Lega nord, vanno configurandosi come una tendenza in netta crescita. Essa tuttavia non ha affatto soppiantato umori ed espressioni di antisemitismo, che anzi – favoriti dalla polarizzazione seguita all’11 settembre e dall’esacerbarsi del conflitto mediorientale – registrano inquietanti impennate, sia pure non così gravi e numerose come in Francia.
Rispetto a tutto ciò, debole, si diceva, appare la reattività anche da parte dei partiti e dell’opinione pubblica democratici e perfino da parte della variegata galassia associativa antirazzista o almeno di alcune sue componenti. I primi hanno spesso sottovalutato la discriminazione e la violenza razziste per lo più reputandole, quando sono stati capaci di riconoscerle, come effimere ed estranee alla tradizione italiana; la seconda, pur contrastandole quotidianamente e coraggiosamente, dà talvolta l’impressione di coglierle non come un fenomeno unitario, bensì come manifestazioni, certo gravi, ma isolate e secondarie, dello sfruttamento economico e dell’ingiustizia sociale e/o come effetto di norme e dispositivi legislativi funzionali allo sfruttamento: queste ultime spiegazioni, pur essendo del tutto fondate, sono riduttive poiché non colgono la complessità e la globalità del fenomeno razzista nonché il meccanismo circolare di cui prima si è detto. Forse non è casuale che, per fare un solo esempio, La rabbia e l’orgoglio, scomposto e volgare pamphlet razzista scritto dopo l’11 settembre dalla giornalista italiana Oriana Fallaci, in Francia sia stato oggetto di denunce legali da parte di associazioni antirazziste, mentre in Italia non abbia suscitato pari indignazione: a nessuno è venuto in mente che una così palese istigazione all’odio razzista potesse essere oggetto di querela, non già per impedire che il libello circoli e venga letto, ma allo scopo di sottolinearne la gravità, di sollecitare il dibattito pubblico e di tentare così di contrastare il processo di occultamento o banalizzazione del razzismo.
Contrariamente ad altri paesi europei, in Italia xenofobia e razzismo non sono oggetto di un discorso pubblico considerato legittimo. Essi sono infatti costantemente occultati e sottoposti a un’implicita censura da parte dei media come delle istituzioni; ma anche nell’ambito di studi specialistici occuparsene è considerato per lo più inopportuno o non pertinente. Segno ed effetto di questo occultamento o sottovalutazione è il fatto che in Italia assai rari siano i dati, le ricerche empiriche, i dossier che cercano di dar conto di questo fenomeno su scala nazionale. Mentre, per quasi esclusivo merito dell’associazionismo antirazzista, non pochi sono gli osservatòri creati localmente, mancano quasi del tutto un monitoraggio e una documentazione del fenomeno omogenei ed estesi a livello nazionale.
Se rare sono le raccolte di dati statistici – ma le statistiche spesso restano mute di fronte alla discriminazione e al razzismo – ancora più rare sono le inchieste di campo basate sull’osservazione di casi empirici e sulla raccolta di testimonianze delle vittime e degli artefici, anche istituzionali, di situazioni di discriminazione e razzismo. In realtà, è soprattutto di ricerche qualitative che si avrebbe bisogno per documentare e analizzare in maniera non astratta un fenomeno così complesso e multiforme, che esige di essere interrogato attraverso categorie forgiate e misurate mediante il lavoro sul campo. In assenza di tali ricerche, la base empirica diretta su cui poggia questa analisi della discriminazione e della violenza razzista in Italia, relativa all’ultimo triennio, è costituita da una raccolta selettiva e ragionata di casi tratti per lo più da notizie di agenzia e articoli di stampa, a loro volta provenienti in parte da rapporti realizzati da centri di monitoraggio sorti per iniziativa di associazioni antirazziste. La base empirica per così dire indiretta è data dall’osservazione partecipante condotta nel corso degli anni attraverso un attivo impegno antirazzista. L’orientamento teorico e concettuale discende da un lungo quanto incompiuto lavoro di riflessione che deve i suoi cardini all’antropologia e alla sociologia critica.
Si tratta solo del primo abbozzo di un’indagine che meriterebbe di essere condotta con più sofisticati strumenti di ricerca e attraverso la comparazione fra una pluralità di ricerche empiriche. Nondimeno ci è sembrato utile e opportuno offrire questa prima tappa di indagine: le conseguenze della legge Bossi-Fini, l’istituzionalizzazione e la normalizzazione dell’intolleranza e il rischio che essa risulti rafforzata dall’ideologia e dai nefasti «effetti collaterali» della guerra preventiva rendono ancora più urgente e doveroso documentare il fenomeno della discriminazione e della violenza razzista in Italia.

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