Noam Chomsky risponde al The Guardian
Questa è una lettera aperta rivolta a quelle poche persone con le quali ho parlato dell’intervista del The Guardian del 31 ottobre, la versione elettronica, che è la sola che io ho visto. Qualcuno mi ha appena inviato una copia della versione stampata, e ora ho capito perché alcuni amici che mi hanno scritto dall’Inghilterra erano così offesi.
E’ una seccatura, e anche un po’ noioso, soffermarsi sull’argomento, e io mi tengo sempre lontano dagli attacchi personali a me diretti, a meno che non mi venga chiesto, ma in questo caso la questione ha un interesse più generale, dunque forse vale la pena riesaminare quello che la maggior parte dei lettori non possono sapere. L’interesse generale consiste nel fatto che la versione stampata mostra un’azione di grande effetto, che, ovviamente, richiede un programma attento e un lavoro per fabbricare e realizzare una diffamazione di questo genere. Per questa ragione è di interesse generale.
Un fatto secondario è che questo può servire come monito a chiunque venga chiesta un’intervista da parte di The Guardian, a cui può capitare di cadere precipitosamente nella fine critica in quanto non in linea con le opinioni approvate dai redattori. Il monito è: se accettate l’invito, siate cauti, e assicuratevi di avere un registratore ben visibile di fronte a voi. Questo potrebbe inibire la propensione all’inganno, e mal che vada, avrete sempre una registrazione. Dovrei aggiungere che in circa migliaia di interviste da ogni angolo del mondo e in qualsiasi periodo,non mi era mai capitato di fare questo tipo di riflessione. Mi capita ora.
Dalla versione elettronica risulta evidente che questo è un pezzo di basso giornalismo. Risulta chiaro anche dalla prova interna La reporter aveva evidentemente un piano prestabilito: puntare l’attenzione sulla realizzazione di una diffamazione basandosi sul mio negare il massacro di Srebrenica. Dallo stile di ciò che è emerso, non era difficile dubitare che le fosse stato assegnato questo compito. Quando non volevo andare avanti, lei ha semplicemente inventato la negazione, più volte, assieme ad altre cose. La colonna portante dell’intervista erano le descrizioni delle mie presunte osservazioni, in modo particolare che:
....durante la guerra in Bosnia il “massacro” di Srebrenica era stato probabilmente gonfiato. (Chomsky usa le virgolette per minare quello che non approva, sui giornali almeno, ci si può imbattere meno come un accademico che come un teenager sprezzante; del tipo, Srebenica non fu un massacro).
Ovviamente nessuno parla usando le virgolette, quindi si doveva marcare l’attribuzione a me della frase “Srebrenica non fu un massacro”, mostrato dal mio uso di massacro tra virgolette- pertanto come uno sprezzante teenager, nonché biasimevole. Questo ci porta a chiederci: Dove si trova sulla stampa, o in qualsiasi altro luogo, questo ? Grazie ad alcune lettere che ho ricevuto, so che molti giornalisti e altre persone hanno chiesto all’autrice dell’intervista e ai relativi redattori di fornire la fonte; ma si sono trovati davanti un silenzio di tomba- per una semplice ragione: non esiste, e lo sanno bene. Inoltre, come fa notare Media Lens, bastano cinque minuti di ricerca su internet, e qualsiasi giornalista può trovare numerosi siti dove descrivo il massacro come un massacro senza mai usare le virgolette. Questo da solo è in grado di esaurire l’argomento. Salterò il resto che cade anch’esso rapidamente.
Ad ogni modo, è più interessante il contributo dato della redazione. A dire il vero, una illustrazione è presente nella edizione elettronica.
Ho scritto una brevissima lettera in risposta, che per alcune ragioni è andata al mediatore, il quale mi ha informato che la parola “fabbricazione” doveva essere rimossa. La mia lettera troncata in cui affermavo di non prendermi la responsabilità di nulla di quello attribuito a me nell’articolo, accostato alla lettera di una vittima, che manifestava l’offesa giustificata provocata dalle mie, o di qualsiasi altro, opinioni inventate dall’articolo di the Guardian. Le due lettere erano accostate con il titolo, dato dai redattori,: “Cancellazione su Srebrenica”. I redattori erano perfettamente a conoscenza che non c’era nessun dibattito o disaccordo riguardo a Srebrenica, una volta che le fabbricazioni fossero state tolte dal loro articolo.
La versione stampata mostra l’accuratezza e l’organizzazione della preparazione, e il perché potrebbe servire un modello del genere. L’annuncio della prima pagina dell’intervista riporta: “Noam Chomsky, l’intellettuale migliore? Alla domanda si risponde con le seguenti domande e risposte sottolineate lungo l’intervista:
D: Si pente di aver sostenuto quelli che dicono che il massacro di Srebrenica era gonfiato?
R: Mi pento soltanto di non averlo fatto più energicamente. E’ da un lato in caratteri grandi in modo da potersi vedere bene, e sarà citata separatamente (come è già stato fatto). Questo racchiude anche l’essenza del piano. L’unico neo è che ciò non è accaduto. La parte più vera è quella in cui dico, e spiegavo ampliamente, che mi pentivo di non essermi opposto abbastanza energicamente alla decisione dell’editore svedese di ritirare un libro di Diana (non “Diane” come ha scritto the Guardian) Johnstone dopo gli aspri attacchi da parte della stampa svedese. Come la Brockes presumibilmente sapeva, anche se comunque l’ho spiegato accuratamente, c’è solo una fonte sul mio coinvolgimento in questa storia: una lettera aperta che ho scritto all’editore, dopo che i redattori hanno obbiettato sulla decisione e gli amici giornalisti, mi hanno inviato le accuse della stampa svedese in base al rifiuto. Nella lettera aperta, che si può leggere su internet (e l’unica fonte), ho preso in visione le accuse una ad una, controllato il libro, e ho trovato che tutte quante vanno dal serio travisamento alla fabbricazione totale. Quindi ero –e sono- dell’opinione che sia completamente sbagliato ritirare un libro perché le accuse della stampa (false) di non conformarsi alla dottrina approvata. E mi pento di “non averlo fatto abbastanza energicamente”, quelle parole che la Brockes ha riportato correttamente. Nell’intervista, non è emersa nessuna cosa che la Johnstone può aver detto su Srebrenica, ed è, in ogni caso, totalmente irrilevante, almeno per chiunque abbia una minima considerazione per la libertà di parola.
L’articolo è poi contornato da una serie di fotografie. Accanto alle foto d’infanzia e di una laurea ad honorem—inclusa per ragioni sconosciute, forse per rinforzare l’immagine che la reporter ha cercato di trasmettere: l’immagine di una ricca elite ipocrita che dice alle persone come vivere (citando un suo commento, presumibilmente credendo di essere intelligente, che, sono ragionevolmente sicuro, non si troverà sulla registrazione). A parte questo, ci sono tre foto che raffigurano la mia vita attuale. E’ una scelta interessante e le didascalie sono ancora più interessanti.
Una mi ritrae mentre “parlo con il giornalista John Pilger” (non è dimostrato che sia davvero autentica, ma concediamo al giornale il beneficio del dubbio ). La seconda immagine ritrae me mentre “incontro Fidel Castro”. La terza, nonché la più interessante, è una mia immagine “nel Laos verso Hanoi per tenere una conferenza sul nordvietnamita”.
Questa è la mia vita: onorare i commie-rats (ratti comunisti) e il rinnegato da cui deriva la parola “pilgerize” inventata dalla giornalista agitata per via del suo resoconto incisivo e coraggioso, e sapendo che la sola risposta di cui sono capaci è ridicola.
Dato che eviterò speculazioni, potrete giudicare voi stessi il ruolo che Pilger ricopre nella vita di fantasia delle redazioni di The Guardian. E la scelta è interessante anche per altri motivi. E’ vero che ho incontrato John poche volte, molto poche rispetto a quanto avrei voluto, perché entrambi abbiano molti impegni. Così forse è stata scattata una foto. Ho dovuto faticare un po’ per collocare questa foto particolare, dandola per buona, tra le innumerevoli foto di me mentre parlo con innumerevoli persone. E il messaggio voluto è chiaro: rivolgere lo sguardo alla foto di Castro. In questo caso la foto, nonostante sia incompleta, è vera. Come certamente sapranno i redattori, almeno se quelli che hanno posizionato le foto hanno fatto due minuti di ricerca, gli altri delle foto (tranne mia moglie) erano, come me, partecipanti al meeting annuale degli studiosi della associazione internazionale dell’America Latina, con alcuni altri provenienti dall’estero. Questo meeting annuale ebbe luogo all’ Havana. Come tutti gli altri, ero in un gruppo che incontrò Castro. Fine della seconda storia.
Andiamo ora verso la terza foto, del 1970. L’elemento veritiero è che ero realmente nel Laos e diretto ad Hanoi. I fatti di questi viaggi sono molto semplice da scoprire. Ho scritto su entrambi i viaggi subito alcuni dettagli in due articoli nel New York Review, ripubblicati sul mio libro “Durante la guerra con l’Asia” nel 1970, e facilmente disponibili agli editori di the Guardian, perché è stato ristampato di recente. Se avessero voluto essere i primi ad avere un resoconto (diversamente i critici in panni così radicali come il giornale della Royal Institute International Affairs), sarebbe stato molto facile per un giornalista verificarlo: bastava contattare le due persone che mi hanno accompagnato per il viaggio intero, uno un professore di economia alla Cornell, l’altro un ministro della United Church of Christ. Entrambi sono molto disponibili Dall’unico resoconto esistente, il redattore avrebbe saputo che nel Laos ero impegnato in attività così sovversive come passare delle ore nei campi dei rifugiati intervistando persone poverissime che erano state appena condotte dall’“esercito clandestino” della CIA dalla Plain of Jars (la Pianura dei vasi), che hanno sopportato probabilmente il bombardamento più intenso della storia per oltre due anni, quasi completamente disgiunto alla guerra del Vietnam. E nel Vietnam del Nord, ho passato la maggior parte del tempo facendo quello per cui ero stato invitato: molte ore di letture e discussione, su qualsiasi argomento io sapessi qualcosa, nelle rovine del politecnico di Hanoi dopo i bombardamenti, la capacità di chi era in grado di ritornare ad Hanoi dalla campagna durante un’interruzione del bombardamento, e chi era così entusiasta di imparare lavori recenti nel loro campi, a quello che non hanno avuto accesso per anni.
Il resto del viaggio “verso Hanoi per parlare del nordvietnanmita” è un’invenzione del The Guardian. Quelli che frequentano i siti di diffamazione dell’estrema destra possono trovare la fonte di queste invenzioni ingegnose, ma anche che questo racconto ridicolo non porti da nessuna parte vicino lontano come quanto miscelato dai redattori di the Guardian, la quale è un’aggiunta nuova alla vasta letteratura di diffamazione di quelli cheoltrepassano i confini stabiliti.
Dunque questa è la mia vita: venero i Commie-rats (ratti comunisti) e un personaggio così terribile come John Pilger. Abbastanza a parte dall’inganno delle didascalie, si nota semplicemente quanto sforzo e cura deve aver avuto per pianificare queste immagini per costruire la risposta alla domanda in prima pagina.
E’ un lavoro di grande effetto, e, come ho detto, da un utile modello per gli studi sugli esercizi di diffamazione, o per quelli che praticano l’attività commerciale.
E anche, forse, da un lezione utile per quelli che potrebbero essere invitati a lasciarsi intervistare da questo giornale.
Questo è incidentalmente solo una parte. Il resto è per la maggior parte quello che ci si può aspettare di trovare sui pagine scandalistiche sulle star del cinema, abituati a questo genere di fonti, e di nessun altro interesse.
Noam Chomsky
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