Il rischioso mestiere di informare
L’occasione per parlare, tra addetti ai lavori, di libertà di informazione è arrivata pochi giorni fa a Viareggio, durante il premio Passetti per il miglior cronista del 2005, organizzato dall’Unione dei cronisti italiani. Ospite d’onore della serata, Judith Miller, ex giornalista del New York Times, finita in carcere per 85 giorni pur di difendere l’anonimato della sua fonte.
Il suo caso è ancora al centro di polemiche negli Stati Uniti e la giornalista dovrà prossimamente presentarsi in tribunale nel processo contro Lewis Libby, capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney, che informò la Miller della presenza di armi di distruzione di massa in Iraq. “Non rimpiango la decisione di essere andata in prigione e neppure quella di esserne uscita dopo che la mia fonte mi aveva dato il permesso di rivelare la sua identità”: così la donna ha cominciato il racconto della sua vicenda, iniziata per essersi fidata di una fonte rivelatasi, in questo caso, priva di credibilità. Infatti le armi di distruzione di massa in Iraq non sono mai state trovate. La giornalista ha spiegato che, negli Stati Uniti, 49 stati hanno una legge che protegge le fonti ma non a livello federale. L’obbligo è testimoniare ma a patto che la fonte dia il permesso. “I miei articoli non sono stati scritti per giustificare la guerra. E’ stato frustrante e mi sono molto arrabbiata quando, da inviata embedded in Iraq, ho capito che le armi non c’erano”, ha precisato la donna, sostenendo con decisione che quando si sbaglia non si deve gettare il silenzio sulla notizia, ma è importante continuare a scriverne per agire correttamente la volta successiva.
Un altro premio giornalistico, l'International press freedom award 2005, ha dimostrato ancora una volta, in questi giorni, quanto sia rischioso lavorare per un’informazione libera e corretta. "Quest'anno due dei giornalisti premiati non hanno potuto ritirare il riconoscimento a New York. Il primo è in carcere, il secondo ha paura di finirci. Il terzo è venuto, ma non osa rientrare in patria. E il quarto è un avvocato per i diritti umani originario di un paese, lo Zimbabwe, dove i giornalisti sono ormai una specie estinta". Così il Washington Post ha commentato l'attribuzione del premio al cinese Shi Tao, al brasiliano Lucio Flavio Pinto, all'uzbeca Galina Bukharbaeva e a Beatrice Mtetwa.
Il settimanale Internazionale ha ripreso la scorsa settimana un reportage pubblicato dal Boston Globe sulla base di un’indagine svolta da alcune organizzazioni per la difesa della libertà di stampa nel mondo (in cima a tutte la statunitense Committee to protect journalists). Secondo questa inchiesta, l’esercito americano è secondo solo alla guerriglia nel numero di giornalisti uccisi da quando è cominciato il conflitto iracheno. Dall’aprile del 2003 i marines hanno ucciso tredici giornalisti, mentre i ribelli iracheni sono ritenuti responsabili della morte di 34 giornalisti. In totale in Iraq, dall’inizio della guerra, sono stati uccisi 58 reporter e 22 operatori dell’informazione (compresi autisti e traduttori). Per fare un paragone numerico, l’Internazionale ricorda che furono 66 i giornalisti morti durante la guerra del Vietnam, 68 quelli uccisi nel corso della seconda guerra mondiale.
Bisogna aggiungere, inoltre, che altri cinque reporter sono detenuti in carceri militari americane senza che nei loro confronti sia stata formalizzata alcuna accusa. Il paradosso è che queste persone non hanno diritto a ricevere assistenza legale perchè non sono accusate di nulla. Secondo le stime dell’organizzazione Reporter senza frontiere, solo in Cina, Birmania, Eritrea e a Cuba c’è un numero maggiore di giornalisti in prigione. Guy Rudisill, portavoce dell’esercito statunitense in Iraq, ha informato che i soldati possono trattenere chiunque sia considerato una minaccia per la sicurezza nel paese.
A conferma di questa linea autoritaria, un ulteriore schiaffo ai diritti umani è venuto dalla Corte di Appello federale del Quarto Circuito. La corte, nota per la sua vicinanza alla Casa Bianca, ha affermato l’autorità del Presidente di detenere senza accusa e senza processo perfino un cittadino statunitense catturato in patria. Nella sentenza, i giudici hanno asserito che tale autorità è vitale in tempo di guerra per proteggere la nazione dagli attacchi terroristici. Il caso su cui si è decisa la questione è quello di Jose Padilla arrestato nel maggio 2002 e designato “nemico combattente” dal presidente Bush.
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